A inizio anni Duemila, quando aveva vent’anni, lo storico Matteo Petracci cominciò a frequentare la sezione Anpi di Macerata, la sua città. Fu così che conobbe Primo Boarelli e Bruno Taborro, scomparsi rispettivamente nel 2012 e 2014. Appena maggiorenni, i due avevano fatto parte del Gruppo Roti, un battaglione partigiano multietnico che durante la Resistenza aveva combattuto nell’area del Monte San Vicino, nelle Marche. Taborro, in particolare, si era unito a un distaccamento che operava nel territorio di San Severino Marche e si chiamava Banda Mario.
Boarelli mostrò per primo a Petracci una vecchia foto del battaglione, che ritraeva un gruppo composto da nazionalità, estrazioni e culture diverse (11 etnie in tutto). Italiani, croati, serbi, inglesi, montenegrini, russi, e perfino un prete. Quelli che lo colpirono di più sul momento, però, furono l’etiope Thur Nur e i somali Aden Sciré e Mohamed Raghé.
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Si conoscevano già storie di partigiani di origine africana che avevano combattuto in Italia (Giorgio Marincola e Italo Caracul sono forse i più famosi), ma probabilmente non è mai esistito un battaglione che contasse un gruppo così nutrito di combattenti africani. Oltre ai tre presenti in quella prima foto, infatti, il Battaglione Mario includeva molti altri membri, uomini e donne, di origini etiopi, eritree e somale.
“Per molti anni,” mi ha raccontato Petracci, “ho continuato a pensare a quella foto. Fino a che non ho deciso di cominciare a ricostruire storicamente le vicende del gruppo, per capire chi fossero e che fine avessero fatto.” Il lavoro, fra ricerche d’archivio e testimonianze, è andato avanti per anni, e si è concretizzato nell’uscita del libro Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana.
A guidare il gruppo, spiega Petracci nel saggio, era l’istriano Mario Depangher, a cui si deve il nome del battaglione. Depangher aveva una travagliata storia alle spalle: socialista convinto, era stato arrestato e mandato al confino più volte per azioni antifasciste—Austria, Russia, Francia—fino a che, rientrato in Italia clandestinamente, non era stato di nuovo catturato e spedito prima a Ventotene, e infine nel campo di internamento di San Severino.
“In quegli anni l’entroterra italiano, specie nelle zone rurali, brulicava di campi di prigionia: sia per ospitare i soldati alleati catturati, sia per internare prigionieri provenienti da quei paesi che l’Italia aveva occupato, come Grecia, Jugoslavia…” Dopo l’8 settembre 1943 molti prigionieri di questi campi fuggirono e si diedero alla macchia, fra cui Depangher—che si rifugiò sul monte San Vicino insieme a molti altri e cominciò la lotta partigiana.
Gli ultimi ad arrivare nel gruppo furono proprio etiopi, eritrei e somali. I membri provenienti dalle colonie del Corno d’Africa, infatti, si trovavano in un altro campo speciale, visto che non erano prigionieri, ma attrazioni. Erano arrivati in Italia nel 1940, a Napoli, per la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare: un evento voluto dal regime fascista per mostrare agli italiani le conquiste coloniali.
Con lo scoppio della guerra, però, la mostra era stata chiusa, e nel 1943 i sudditi coloniali erano stati condotti presso Villa Spada, a Treia (in provincia di Macerata, appunto), dove vivevano nelle scuderie della villa in regime di semilibertà. “Nei mesi successivi alla proclamazione dell’armistizio, tre prigionieri di Villa Spada riuscirono a fuggire, e percorrendo vari chilometri, probabilmente con l’aiuto della popolazione locale, si unirono alla Banda Mario. Spiegarono che nel loro campo c’erano molti altri africani che avrebbero potuto e voluto unirsi alla causa, e armi in dotazione alle guardie da poter prelevare.”
Così, la sera del 28 ottobre 1943, la Banda Mario assaltò Villa Spada liberando i prigionieri del campo. Molti dei quali si unirono a loro.
“Quello che mi ha sempre affascinato di questa vicenda,” mi dice Petracci, “è l’impatto del significato che ha quel gruppo così multietnico, in cui si parlavano svariate lingue, e si professavano molteplici religioni. C’erano ebrei, musulmani, cristiani copti, anglicani e cattolici. Il collante era Depangher, che parlava cinque lingue (sloveno, russo, francese, tedesco e italiano), e che era sempre stato un internazionalista convinto. Lo spirito di corpo e di unione, in un’epoca e in un paese dominato da un regime razzista, sono oggi ben visibili.”
I capi del gruppo facevano arrivare al campo base anche delle pecore vive perché i musulmani non mangiavano carne che non fosse macellata secondo la tradizione halal. Questo, continua Petracci, evidenzia “un grande rispetto per la diversità se si pensa che vivevano in clandestinità, accerchiati dai nazisti; eppure c’era comunque questa premura per i proprio compagni.”
Nel libro lo storico ricostruisce le numerose azioni del Battaglione Mario, fra cui spicca la battaglia di Valdiola. Da settimane i nazifascisti stavano portando avanti un’azione di rastrellamento, che dalle Marche meridionali risaliva verso il nord. All’indomani dell’attentato di via Rasella a Roma, le azioni si intensificarono: il 24 marzo 1944, 2000 unità italo tedesche si strinsero a morsa attorno a Matelica, Apiro e Sanseverino. Il battaglione Mario, combattendo strenuamente, riuscì a respingere il nemico per ben due volte.
Petracci, con il suo lavoro, riesce a dare grande risalto all’apporto dei partigiani di origini africane della Banda Mario, alcuni dei quali diedero la vita per la Resistenza. Grazie alle sue ricerche, ad esempio, è riuscito anche a individuare la tomba di uno dei più famosi di loro, l’etiope Carlo Abbamagal, una delle guardie del corpo di Mario Depangher. Morto a Frontale d’Apiro il 24 novembre 1943, durante uno scontro con i nazisti. Grazie a Petracci, nel 2014 Abbamagal è stato degnamente sepolto, con tanto di lapide onorifica.
Fra i partigiani sopravvissuti della Banda Mario, invece, c’era il somalo Aden Sciré. Il quale, una volta ritornato in patria, ha partecipato al processo di decolonizzazione della Somalia per poi diventare ministro della giustizia e della religione.
“È impressionante vedere quanti, fra coloro che hanno preso parte alla lotta partigiana, hanno poi partecipato attivamente ai processi democratici di ricostruzione post bellica,” sottolinea lo storico. “Non solo in Italia, ma, come dimostra Sciré, anche all’estero. Questo fa capire che tipo di esperienza di responsabilità civile debba essere stata la Resistenza.”
Oggi la figlia di Aden Sciré, Shukri Aden Shire, vive a Londra. Tempo fa, riconoscendo una foto del padre su Internet, ha contattato Petracci via mail. È poi venuta in Italia, e lo storico l’ha guidata nei luoghi in cui il padre aveva combattuto. Il 25 aprile del 2019, la figlia della donna—nipote di Sciré—ha tenuto uno dei discorsi ufficiali di cerimonia a Macerata, per la festa della Liberazione. Poco più di un anno prima c’era stato l’attentato neofascista perpetrato da Luca Traini.
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