“Avere paura nel rientrare a casa la sera è la riprova della postura di allerta che, in quanto donne, abbiamo assunto nei confronti del mondo circostante. Una postura che non è di per sé insita in ciascuna di noi, ma frutto di una vita trascorsa a stretto contatto con diverse forme di violenza,” spiega Marie Moïse, attivista, traduttrice e dottoranda in Filosofia Politica presso l’Università di Padova e Tolosa II.
Ispirandosi a quanto teorizzato da Elsa Dorlin, filosofa femminista francese, Moïse sostiene che siano proprio queste esperienze—dai commenti non richiesti fino alla violazione del consenso sul proprio corpo—a far sì che le donne si identifichino con la figura di una preda costretta a elaborare continue strategie di sopravvivenza.
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In questo articolo ho deciso di rivolgermi a psicologhe, educatrici sessuali, docenti universitarie e attiviste intersezionali per parlare dei fattori che rendono il catcalling un fenomeno tanto noto quanto radicato e riflettere sulle implicazioni che questo ha nel sociale, specialmente per chi ne è vittima quotidianamente.
Pur essendo nel 2021, c’è ancora chi infatti si ostina a far passare certi “apprezzamenti” sessisti, sguardi intimidatori e schiamazzi di gruppo per semplici complimenti. Per chi però con il catcalling ha imparato a conviverci sin dall’inizio dell’adolescenza, la situazione è ben diversa.
Avevo 12 anni quando, nel pieno dell’estate italiana, mi ritrovai a passeggiare per le strade del paese indossando dei pantaloncini di jeans. Ai tempi ero tutto fuorché consapevole di quanto fosse facile divenire oggetto di determinati commenti, complici forse l’innata goffagine ed ingenuità di una ragazzina non ancora in grado di riconoscersi appieno nel proprio corpo in cambiamento. Eppure, a distanza di quasi 11 anni, ricordo come se fosse ieri il “Bel culo!” urlatomi da un quarantenne nel mezzo della piazza, lo stupore misto alla più totale incapacità di reagire a chi, in quanto ad età, avrebbe potuto essere mio padre, e l’indifferenza di chi mi stava attorno.
Crescendo e confrontandomi con le mie coetanee, mi sono resa conto di quanto quell’episodio non sia stato un caso isolato, bensì un qualcosa a cui donne, di ogni età, aspetto, e provenienza, vanno incontro con una estrema regolarità. Lo confermano i dati: in uno studio condotto nel 2019 dall’UC San Diego Center on Gender Equity and Health, il 76 percento delle donne intervistate ha rivelato di avere subito molestie verbali a sfondo sessuale, più del doppio rispetto a quanto affermato dai partecipanti uomini (35 percento). Un elemento, questo, che denota una specifica componente di genere, di cui abbiamo già parlato qui e di cui scriveremo ancora più avanti.
Secondo la Cornell International Survey on Street Harassment, ad oggi l’analisi più ampia mai condotta a livello internazionale a questo riguardo, ben l’88 percento delle italiane sottopostesi al questionario ha dichiarato di aver dovuto cambiare strada per fare fronte a una molestia subita lungo il percorso.
Nel Regno Unito, paese ancora scosso dalla scomparsa di Sarah Everard per mano di un poliziotto di Scotland Yard, Plan International UK—promotore della campagna Crime not Compliment del 2020—denuncia che il 69 percento delle vittime di molestie di strada sono state importunate da un aggressore adulto a loro sconosciuto. Inoltre, stando a quanto riportato da UN Women UK, nove donne su dieci provenienti da diverse città nel mondo si sentirebbero in pericolo nei luoghi pubblici per il timore di dover reagire ad attacchi verbali, o fisici, da parte di uomini.
Ma quali sono gli stereotipi di genere e i fattori socio-culturali che continuano ad alimentare il catcalling?
Cosa è il catcalling
Secondo Giulia Zollino, antropologa, educatrice sessuale e operatrice di strada, la risposta è semplice: “Le molestie di strada derivano dalla cultura dello stupro in cui nasciamo, cresciamo, e siamo immersi constantemente senza neppure rendercene conto.”
“A fomentare questa tipologia di violenza c’è la convinzione che determinati commenti siano un qualcosa di positivo quando, in realtà, servono da vera e propria strategia di controllo: una maniera di ribadire chi, di fatto, può dire cosa,” continua Zollino, che è anche autrice del recente Sex work is work, un libro che riflette su questa professione per garantire tutele e diritti a chi la esercita. “Un altro dei fattori che vi contribuisce è la credenza che le donne debbano essere degli oggetti di per sé desiderabili e che, proprio per questo, esse necessitino dell’approvazione costante dello sguardo maschile.”
Da sempre interessata alle intersezioni delle oppressioni sociali e a come queste forgiano i singoli individui, Marie Moïse ritiene che catcalling e molestie di strada non siano altro che il riflesso delle più ampie asimmetrie di potere presenti nella società, e nello specifico l’asimmetria “tra chi ha il potere di definire un altro attraverso il linguaggio oppressivo e chi, al contrario, viene definito da esso.”
Come spiega Moïse, il catcalling non è un fenomeno a sé stante, ma la conferma di quanto le esperienze dei singoli vengano dettate, e spesso pregiudicate, da fattori quali genere, orientamento sessuale, razza, disabilità, credo religioso. Proprio per questo, le molestie di strada sono un qualcosa da analizzare in chiave intersezionale—ossia tenendo conto di come queste caratteristiche aggravano la violenza nei confronti di chi è storicamente discriminato sulla base della propria identità.
Molestie di strada: quali sono i gruppi maggiormente a rischio?
Simone Kolysh, che in Everyday Violence (2021) spiega che donne e persone della comunità LGBTQ+ sono le fasce maggiormente esposte alle molestie di strada, analizza come le esperienze di questi gruppi sociali siano ulteriormente esasperate da dinamiche di classe, razza, e spazio.
In questo senso, Naomi Kelechi Di Meo—attivista, femminista intersezionale pan-africana, studentessa in Media Studies presso l’Università di Amsterdam e parte di Art3 Collective—porta l’esempio delle donne nere: “Attraverso lo sguardo degli altri, i nostri corpi vengono oggettificati tanto da essere considerati alla stregua di ‘macchine da sesso’ il cui unico scopo sembra essere quello di dare piacere a chi le osserva. Esattamente come avveniva nel Corno d’Africa, considerato un vero e proprio ‘paradiso sessuale’ ai tempi dell’occupazione fascista.”
Secondo Di Meo, le molestie di strada nei confronti di donne nere sarebbero, oltre che un retaggio d’epoca coloniale, l’emblema di come il razzismo influenzi l’immaginario collettivo della popolazione femminile nera. Un immaginario che, negando loro la possibilità di sentirsi violate e provare dolore, e il desiderio di avere pieno controllo sul proprio corpo, espone la comunità a molestie di strada ancora più complesse.
Un’altra esponente di Art3 Collective, Mariam El Haouat, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, aggiunge un tassello: “Il catcalling non dipende mai realmente dall’aspetto esteriore di chi lo subisce, ma dalla visione che gli uomini hanno delle proprie ‘prede’. In qualità di ragazza col velo, mi sento di mandare un messaggio a tutte quelle che non lo portano: la violenza di genere non fa distinzione tra chi sceglie di indossare l’hijab e abiti lunghi e chi invece si sente a proprio agio in shorts e minigonna.”
Tra le persone particolarmente soggette a episodi di violenza troviamo poi le donne trans: un gruppo sociale per cui le molestie di strada possono diventare anche una questione di vita o di morte. Come racconta Louise Chambers, docente del Master in Gender, Media, and Culture presso la Goldsmiths University di Londra, la violenza in strada diretta alle donne trans si manifesta attraverso commenti omofobi, misogini e transfobici finalizzati a rivendicare le caratteristiche ‘tradizionali’ della figura femminile—dal modo in cui questa appare fino al suono della sua voce—all’interno di un’ottica eteronormativa, deridendo così chiunque non rispecchi l’immagine di ‘donna’ dataci dalla società.
Secondo Zollino, se c’è una fetta di popolazione ancora più esposta agli sguardi altrui, come pure ad attacchi fisici e commenti denigratori, è quella composta da chi fa sex work. Secondo una ricerca condotta dal Centre for Crime and Justice Studies, si tratta dei bersagli più facilmente raggiungibili dallo street harassment—come lo sono, stando a quanto riportato da Stop Street Harassment e come abbiamo già visto, gli individui appartenenti a minoranze etniche e soggetti a basso reddito.
“Lo street harassment di cui fa esperienza chi fa sex work su strada—per lo più donne cis e trans—è solo una delle tante forme assunte dallo stigma diretto nei loro confronti,” spiega Zollino. “Purtroppo, queste molestie non sono slegate dalla violenza di genere che colpisce le donne in altri ambiti. Per via della loro condizione, le lavoratrici del sesso sono semplicemente l’obiettivo più facilmente attaccabile da chi si ostina a perpetrare oppressione ai danni della comunità femminile.”
In che modo possiamo combattere il catcalling?
Secondo Marie Moïse, il primo passo per contrastare questo sistema è diventare più consapevoli del potere delle parole. “Chi si trova nella posizione di definire qualcun altro corrisponde a chi, all’interno della società, si vede arrogata la libertà di agire violenza, opprimere, e marginalizzare gli individui altrui. Lavorare sul linguaggio è quindi fondamentale,” spiega. “Non solo ci permette di identificare le dinamiche di oppressione perpetuate attraverso le parole, ma ci dà anche modo di capire come disinnescarle.”
Guardando poi alle soluzioni concrete, sebbene la risposta non sia di certo una sola, la psicologa clinica romana ed attivista per i diritti civili, Laura De Dilectis porta l’esempio del progetto DonnexStrada, di cui è fondatrice.
“Sei in strada e non ti senti al sicuro? Non preoccuparti, scrivici in DM! Faremo partire una diretta Instagram con tutta la comunità di DonnexStrada che ti accompagnerà fino a destinazione,” si legge in uno dei primi post pubblicati dall’account del collettivo che, dal 4 giugno, è anche un’associazione a tutti gli effetti.
Frutto dell’impegno di dieci collaboratrici, tra cui assistenti sociali, sociologhe, psicologhe e studentesse di Giurisprudenza, e di una vasta rete di volontari in tutta Italia per contribuire al progetto, le cosiddette direttexstrada sono soltanto una delle numerose proposte pensate da De Dilectis per arginare questa forma di violenza. Secondo la psicologa, ad ostacolare il cambiamento verso “una società più civile ed umana” sono le resistenze del singolo ad assumere un nuovo punto di vista sul mondo, la cattiva informazione diffusa dai media e dalla politica e l’assenza di dialoghi costruttivi.
Ci sono poi anche le azioni istituzionali—come quella che in Inghilterra e Galles punta a rendere illegali le molestie di strada, e che includerebbe lo stanziamento di fondi, nuove figure e iniziative contestate come l’impiego di poliziotti sotto copertura in bar e locali—e ovviamente il modo in cui le nostre stesse città sono pensate, costruite e amministrate.
Tuttavia, se c’è una cosa che ho capito nel parlare di catcalling con le persone che hanno contribuito a quest’articolo, è che non esiste via d’uscita che non implichi un taglio netto con le convinzioni che hanno, sino ad ora, caratterizzato la nostra visione del mondo. Una presa di coscienza collettiva capace di educare, allo stesso modo, vittime e perpetratori di violenza a una società che scende a patti con i propri scheletri nell’armadio—che sia la violenza di genere, il razzismo, o la discriminazione ai danni della comunità LGBTQ+—per porre le basi di un futuro migliore.
“Perché non vogliamo essere coraggiose,” concludo citando le parole di De Dilectis. “Vogliamo essere libere.”