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Come lo Champagne combatte il cambiamento climatico, e perché l’Italia ha fin troppo da imparare

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Nel 2019 la vendemmia è stata i primi di settembre, molto tardiva. La mia prima vendemmia, però, è stata nel 1998 e allora era normale farla a ottobre.

Ci sono due facce del cambiamento climatico in Champagne. Da una parte c’è la verità un po’ spiazzante che quasi tutti i champenois non nascondono: adesso, con le estati più calde e le notti ancora fresche, è più facile fare dell’ottimo champagne. Dall’altra parte c’è la consapevolezza di tutte le maison – grandi e piccole – che la situazione presto potrebbe precipitare. E stanno correndo ai ripari, ma lo fanno da almeno 20 anni.

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“Chiunque dica che non ci sia cambiamento climatico mente,” afferma Alexander della Maison di Chartogne Taillet. “Adesso la maturazione delle viti arriva molto prima”.

“Prima ad agosto andavamo in vacanza, adesso dobbiamo tornare prima, ma non è un problema, la vendemmia è elettrizzante. Per chi come noi fa vino da solo, in modo artigianale, al momento è una benedizione”, dice invece Arthur Lermandier, della Maison Lermandier Bernier, che poi però aggiunge che “ovviamente in 10 anni non sarà così positivo.”

“Nel 2019 la raccolta è stata i primi di settembre, molto tardiva. La mia prima vendemmia, però, è stata nel 1998 e allora era normale farla a ottobre,” dice Christian Holthausen, responsabile dell’export e della comunicazione internazionale AR Lenoble.

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Foto dell’autrice.

E nell’anno della pandemia una vendemmia precoce è stata una manna dal cielo. “Siamo riusciti a fare una bella vendemmia, la più precoce nella storia dello champagne. Un colpo di fortuna perché è stata prima della seconda ondata di Covid in Francia, quindi siamo riusciti a evitare i contagi e a vendemmiare un’uva molto buona”, racconta in video conferenza Vincent Perrin, Direttore Generale del Comité Champagne. Il Comité, che vi nominerò più volte durante questo pezzo, riunisce i vigneron e le maison di Champagne e opera, in veste di organismo super partes, a favore della collettività, prendendo misure economiche, organizzative e ambientali.

I risultati dal 2000 sono un -20% di gas serra per bottiglia, 90% dei rifiuti industriali riciclati, -50% dei fertilizzanti azotati.

Chiunque sia venuto in Champagne almeno una volta lo sa: qui il tempo è tutto fuorché invitante, e il cibo, spesso e volentieri, neanche, tranne alcune eccezioni. Ma, nonostante tutto, avere a disposizione tutto quel nettare di bollicine, tutte le maison da visitare, giustifica appieno il viaggio. Certo bisogna organizzarsi bene: le grandi maison – Pommery, Veuve Cliquot, Poll Roger – sono abbastanza strutturate da essere quasi sempre aperte al pubblico; quelle più piccole non sempre accettano gli amatori, ma se si prenota una degustazione in cantina volta all’acquisto, e in anticipo, è più facile.

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Tipico cielo a inizio autunno in Champagne. Foto dell’autrice.

Io in Champagne ci sono andata lo scorso inizio autunno, pre-pandemia: vendemmia finita da qualche giorno, cielo plumbeo con qualche sparuta apertura pomeridiana. Non è difficile credere che i vignaioli siano felici di quei gradi in più. La cosa di cui non sono contenti, ovviamente, è l’incertezza climatica. Pioggia violente non sono così comuni da queste parti, eppure i rischi ci sono anche qui, nella terra dell’ubriacatura più indulgente del mondo. Provate voi a bere un alcolico per due giorni di fila dalla mattina alla sera e a non avere neanche un cedimento, neanche un sopimento, ma solo la costante voglia di berne ancora.

Ma non siamo qui per parlare dello champagne che provoca poco hangover, quanto piuttosto della possibilità, futura, di berne ancora. Il riscaldamento globale, infatti, è realtà anche da queste parti: la temperatura media è aumentata di +1,1% in 30 anni e fino ad ora ha portato benefici alla qualità delle bollicine francesi. Ma i gradi che si potrebbero sfiorare in futuro sono addirittura +6 °C, cosa che ovviamente non può giovare al vino più pregiato al mondo e al suo complesso sistema di coltivazione e raccolta.

L’annata 2019 è stata accompagnata da un clima caldo e soleggiato e la maturazione hanno reso i mosti perfetti “dal punto di vista dell’equilibrio fra acidità e tasso di zucchero” come si legge nel comunicato stampa del Comité Champagne. Quella del 2020 sarà una grande annata, dicono sempre le fonti del Comité, anche se non di grandissime quantità. Ma tutto questo, come per il tartufo bianco, e altre cose buone da mangiare e bere, potrebbe in futuro venire meno. 

Il sistema Champagne e l’ambiente

Il nostro marchio nasce grazie a un’unione di produttori, nato nel 1976 da un’eccedenza di uve raccolte durante la vendemmia, eccedenza causata dal riscaldamento climatico.

Fra tutti i gruppi di vignaioli, francesi e italiani, non troverete mai nessuno più unito che nello Champagne. Un po’ per tutto l’operato del Comité che mette sul piatto le esigenze dei diversi produttori. Produttori che passano da maison iper conosciute come Pommery, Paul Roger, Veuve Cliquot, a nomi un po’ più piccoli o indipendenti come AR Lenoble, Lermandier-Bernier, Tattinger o Taillet.

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Foto dell’autrice
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Foto dell’autrice

E visto che in Champagne parlano e discutono spesso fra di loro, il problema da porsi dell’ambiente e del futuro climatico viene fuori costantemente. E sono anche i primi che si stanno armando di tutti i mezzi possibili per rendere lo champagne sostenibile e per prevenire i disastri ambientali. 

“La diagnosi ambientale nello Champagne è partita nel 2001 con un’analisi di tutta la filiera, grazie alla quale abbiamo calcolato la nostra impronta di carbonio. Abbiamo adottato una nostra certificazione invece di adempiere a quella nazionale, che è arrivata dopo. L’ obiettivo è di arrivare a una viticoltura 100% ecologica entro il 2030. Ciò vuol dire viticoltura biologica; sostenibile per la nostra regione, con certificazione HVE .” Così spiega Pierre Naviaux, Chef de projet Développement Durable del Comité Champagne.

I risultati dal 2000 sono un -20% di gas serra per bottiglia, 90% dei rifiuti industriali riciclati, -50% dei fertilizzanti azotati.

In un futuro, non troppo remoto, per la raccolta ci saranno dei robot, che sono meno invadenti dei trattori. 

Naviaux continua: “A noi non interessa se 200 viticoltori sono biologici mentre il resto non lo è. Eravamo e siamo esposti al cambiamento climatico; avevamo e abbiamo una responsabilità su questo cambiamento.”

Sì perché, come ho scoperto grazie a una chiacchierata su Zoom con Anne-Laure Domenichini, responsabile della stampa della maison Nicolas Feuillatte, un primo grande segnale sul surriscaldamento globale in Champagne arriva addirittura nel 1976. “Dietro la nostra etichetta si nasconde un modello diverso: il marchio nasce grazie a un’unione di produttori, nato nel 1976 da un’eccedenza di uve raccolte durante la vendemmia, eccedenza causata dal riscaldamento climatico.” Nicolas Feuillatte è una maison molto cara ai francesi: è stato uno dei primi marchi a puntare sulla grande distribuzione, in un’epoca dove lo champagne era considerato ancora più pregiato di adesso. 

Tornando alla situazione odierna, Naviaux continua elencando gli sforzi di coordinamento dello Champagne – grazie anche al Comitè – per eliminare pesticidi e ridurre l’impronta di carbonio della produzione: riunioni tecniche; diffusori di ferormoni (per creare la confusione sessuale degli insetti che così non si riproducono sulle viti); rete per il controllo della maturazione delle uve; monitoraggio ambientale; salvaguardia della biodiversità. 

“Abbiamo fatto un censimento sulla flora e su come mantenere questi spazi. Abbiamo registrato 350 specie, alcune anche rare, oltre a 50 uccelli e lombrichi, circa 100 per metro quadro, essenziali per l’ecosistema. Senza questo non possiamo funzionare. Un tema di cui si parla poco è l’infrastruttura agro-ecologica – muretti a secco, i bordi strada su cui si lascia crescere una certa vegetazione- che possono essere oro per la biodiversità”.

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Vendemmia in Champagne. Foto per gentile concessione del Comité Champagne

Queste azioni si attuano in tutto lo Champagne e sono declinate in tutte le particolarità della regione, perché c’è da ricordare che qui si parla di 34.000 ettari e di 16.100 viticoltori, con un territorio molto frammentato. “Non prendiamo posizioni ideologiche: non diciamo ‘per forza il biologico’, prendiamo tutto in considerazione,” aggiunge Naviaux. “La nostra è una viticoltura ragionata”. 

Ad esempio, si tiene conto di tutto, anche dell’invasione dei trattori e del conseguente inquinamento. In un futuro, non troppo remoto, per la raccolta ci saranno dei robot, che sono meno invadenti dei trattori. 

Perché non è greenwashing

La pandemia non ha indebolito questo approccio, anzi abbiamo capito di dover accelerare e arrivare all’utilizzo zero di pesticidi

L’impegno a preservare la Champagne non è venuto meno durante la pandemia: mentre molti brand o realtà agroalimentari hanno perso di vista per un momento i fattori ambientali, per superare una crisi sanitaria/economica, la regione francese non ha invece mollato il colpo. “La Champagne è stato colpito dalla pandemia, la filiera fortunatamente ha continuato a lavorare nonostante le difficoltà legata alla mancanza di manodopera,” spiega Pierre Naviaux.

Vincent Perrin aggiunge: “La Champagne è leader della viticoltura sostenibile. La dinamica di un modello che preserva terroir e ambiente è un approccio che dal 2015 è una parte sempre più integrante delle dinamiche produttive. La crisi non ha indebolito questo approccio, anzi abbiamo capito di dover accelerare e arrivare all’utilizzo zero di pesticidi.” In merito allo sforzo collettivo Perrin dice: “Abbiamo deciso collettivamente e abbiamo contenuto insieme le perdite. L’equilibrio di questa regione ci consente di non lascare indietro nessuno.” 

Cosa dicono i giovani Champenois

In molti sono arrivati all’organico e al biodinamico in tempi non sospetti, altri hanno invece preso in mano l’azienda di famiglia e rivoluzionato l’agricoltura.

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Foto dell’autrice

Alexander della Maison Chartogne Taillet però è molto critico sulla definizione di vino o champagne naturale: “L’agricoltura può essere anche biodinamica, ma una volta che vai in cantina e aggiungi solfiti, anche se pochissimi come nello champagne, non è più un vino naturale, diventa solo greenwashing”.  Questo sebbene Alexander abbia dovuto insistere con i genitori per andare verso una coltivazione priva di pesticidi. Quando mi trovavo in Champagne l’anno scorso mi ha raccontato della sua decisione di rilevare l’azienda di famiglia, perché lavorare con suo padre era diventato impossibile: “Io gli dicevo che non avremmo mai dovuto più usare pesticidi, lui andava a darglieli di nascosto la sera quando non vedevo”. Lo racconta ridendo mentre stiamo degustando alcuni delle sue acidissime e deliziosamente anomale bolle. Continua “Ma non posso fargliene una colpa, sono un’altra generazione, adesso è il nostro compito andare verso la strada di un’agricoltura e un sistema sostenibile. Vogliamo assicurarci le future generazioni possano ancora lavorare qui”. 

Una volta che decidi di essere biologico devi sempre saper prevenire

Diversissimo il caso invece di Lermanier-Bernier. I genitori di Arthur, Pierre e Sophie Lermandier, sono stati fra i primi a rinunciare ai pesticidi, lo decidono negli anni ’90. Pierre parla sempre di come il vino debba rispecchiare e parlare del suo terroir. In diverse interviste e sul suo sito si legge una frase che molto ha a che fare la rivoluzione naturale non solo in Champagne, ma anche in Italia: “L’uva porta naturalmente con sé tutte le qualità e l’autenticità che nessuno essere umano sarebbe capace di inventare”. E Arthur parla molto degli insegnamenti del padre in materia: “Una cosa che mi dice sempre: una volta che decidi di essere biologico devi sempre saper prevenire, e riusciamo a farlo anche grazie ai mezzi che ci vengono dati dal sistema champagne – le previsioni del tempo in largo anticipo, l‘individuazione di una malattia dell’uva.” 

Il motivo per cui i vignaioli dello Champagne sono così solerti a prendersi cura della propria terra è banalmente perché la amano e perché tutte le maison, con rarissime eccezioni, si tramandano in famiglia da generazioni. E poi perché una terra in Champagne ovviamente vale una fortuna (il prezzo stimato per un ettaro 1 milione di euro).

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Foto per gentile concessione del Comitè Champagne

AR Lenoble, ad esempio, è una maison familiare indipendente che negli ultimi anni è molta amata all’estero. Anche loro hanno cercato di creare in vigna un ambiente che potesse garantire un uva più sana possibile, ospitano anche degli alveari per aiutare la natura e la biodiversità dei loro terreni. Uno dei più grandi problemi, purtroppo, rimane la muffa grigia, e qui ovviamente si affidano ad interventi anche non naturali, ma solo quando lo necessitano. Uno dei grandi timore durante la raccolta in genere è proprio l’invasione della muffa grigia che si può espandere velocemente in un clima umido e caldo. In questo il cambiamento climatico chiaramente non favorisce la raccolta.

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Epernay. Foto per gentile concessione del Comité Champagne

Per dare un’idea delle condizioni climatiche di partenza della regione: la temperatura media a Reims ed Epernay è di circa 10 °C, e la media delle ore di sole l’anno sono di 1650 contro le 2069 di regioni come il Bordeaux. Ciò che influenza di più questa terra è senza dubbio il clima marittimo dell’Atlantico, e ogni variazione ha effetti sulla resa e il vino una volta in cantina.

Per esempio, il rischio più grande in Champagne è che l’uva si ghiacci durante le notti primaverili, mentre d’inverno i rischi sono quelli riguardanti la pianta di vite. Alexander mi dice: “In futuro è probabile che ci saranno molte più ghiacciate”. Da aprile a giugno quando l’uva è cresciuta, invece, la giusta dose di sole è fondamentale, cosa che ovviamente ha a che fare con gli effetti “benefici” del cambiamento climatico. Almeno per il momento.

Insomma lo Champagne ha delle regole e un’organizzazione ben precise che sono indispensabili per ottenere quelle belle bolle pregiate che non ti fanno venire l’hangover. I vignaioli le regole hanno sempre cercato di rispettarle e hanno imparato a far fronte comune davanti a queste variabili. Una cosa che in Italia alcune regioni stanno iniziando a contemplare – vedi Franciacorta e Trento Doc – certo, ma in materia di clima siamo ancora pericolosamente inconsapevoli e, soprattutto, pericolosamente poco previdenti.

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