Il Cirò è il Barolo calabrese, il biglietto da visita con cui ti presenti fuori dalla regione
Un calabrese lo sa: se sei svezzato a ‘Nduja, difficilmente mangi Sardella. Nella stessa regione le distanze, vuoi per la poca efficienza della linea ferroviaria, vuoi per le strade non propriamente agevoli, spesso sono limiti invalicabili. Amo le imprese impossibili, soprattutto quando la posta in gioco è alta, che nel mio caso significa essere ricompensati con buon cibo e vino.
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Il Cirò Revolution, rispetto al convenzionale, vuole essere un vino di fattura artigianale. L’idea è quella di ritornare alla tradizione, a quello che era il Cirò dei nonni
Così, se da Tropea supero le colonne d’Ercole della provincia di Crotone, è per un motivo vitale: capire cosa sia la Cirò Revolution. Il nome, letto sulla Guida alla Calabria di Vice, mi incuriosisce. Il Cirò è il Barolo calabrese, il biglietto da visita con cui ti presenti fuori dalla regione. Non solo perché è il vino più viaggiatore e cosmopolita, e di conseguenza il più conosciuto, ma anche per la sua storia e il profondo legame che ha con il territorio. Nel Cirotano la vite è coltivata da 2.500 anni e il Cirò rosso o rosato Doc, da disciplinare, deve essere prodotto, con uva Gaglioppo.
Il vitigno, autoctono e a bacca rossa, arrivato sul territorio con i primi coloni greci e caratterizzato da grappoli compatti dal colore violaceo intenso, può essere considerato il maggior interprete del terroir calabro. Il fatto poi che il Cirò sia anche il vino più premiato e più venduto aiuta. I dati per i cinquant’anni del Cirò Doc parlano di 4.099,067 numero di bottiglie prodotte nel 2018, per un giro d’affari pari a 15 milioni di euro. L’export copre il 45% del fatturato totale: il principale mercato europeo è la Germania, seguita da Usa, Svizzera, Inghilterra, Olanda, Belgio, Canada, alcune aziende iniziano ad avere rapporti commerciali con il Giappone e il prossimo obiettivo sono i Paesi Scandinavi. Il 55% del fatturato del Cirò Doc è destinato al mercato italiano, di cui il 40% viene venduto all’interno della stessa Calabria grazie all’elevato flusso turistico.
Il Cirò Revolution, rispetto al convenzionale, vuole essere un vino di fattura artigianale. Poche condizioni, ma ferree. Quindi: vinificazione di Gaglioppo in purezza (nel convenzionale sono ammessi anche altri vitigni), pochi interventi in vigna (zolfo e rame), nessun miglioramento in cantina, l’affinamento in barrique e il gusto del legno piccolo meglio evitarli. L’idea è quella di ritornare alla tradizione, a quello che era il Cirò dei nonni. Se il 2008 è l’anno spartiacque, da cui parte quella che, a posteriori, sarà definita “Cirò Revolution” e di cui Francesco Maria De Franco dell’azienda ‘A Vita è pioniere, è nel 2010 che il movimento si materializza a causa una modifica nel disciplinare di produzione del Cirò Classico Doc. Per ovviare al problema del colore rosso rubino scarico, il disciplinare concede l’utilizzo del 10% di vitigni internazionali, quali Cabernet Sauvignon e Merlot. Le aziende della Revolution non ci stanno: il rosso scarico diventa il genius loci di un vino che vuole tornare indietro nel tempo, a una produzione da monovitigno autoctono e a un legame forte con la vigna, che esprima una identità territoriale precisa e riconoscibile. Per raggiungere lo scopo finale nessun compromesso sull’integrità del frutto, che deve essere supportata da una conoscenza tecnica adeguata.
Se sei di Cirò hai il vino nel sangue, ogni famiglia qui ha la vigna e vende uva o produce vino per il proprio fabbisogno
Chiedo lumi a Giovanni Gagliardi che, con il portale vinocalabrese.it, promuove una nuova Calabria viticola. Mi spiega il progetto della Cirò Revolution e mi da i contatti dei vignaioli. A questo punto non rimane che andare in loco. Nonostante le raccomandazioni di chi conosce il territorio meglio di me, l’istinto mi suggerisce il treno. Lo assecondo. Il viaggio di andata, 3 ore e 50 minuti con due cambi, tutto sommato, mi sembra un compromesso accettabile per non doversi ritrovare, a fine giornata, con una macchina ingombrante da guidare “responsabilmente”.
L’idea del treno mi sembra sempre più convincente, anche quando intuisco che la nostra (viaggio con mia sorella) vicina di Bergamo è entusiasta del mio racconto sui nuovi vignaioli di Cirò e, in un momento di calabresità spinta (puoi togliere una persona dalla Calabria, ma non la Calabria da una persona), la invito a unirsi a noi. Accetta senza pensarci due volte, non avevo dubbi. Alla stazione di Cirò ci aspetta Francesco Maria De Franco, che dopo 25 anni da architetto tra Firenze e San Marino, è tornato nella sua (nostra) regione per fare del vino lo strumento dell’identità territoriale.
La nostra rivoluzione consiste nel non inseguire un modello precostituito, ma nell’assecondare la natura: se ti da un vino con più tannini o con più alcol, te lo tieni, non lo aggiusti, non aggiungi gomma arabica o zucchero per ammorbidirlo
“Perché l’ho fatto? Perché se sei di Cirò hai il vino nel sangue, ogni famiglia qui ha la vigna e vende uva o produce vino per il proprio fabbisogno”, mi dice mentre ci lasciamo alle spalle il mare e di fronte a noi si delinea, imponente e silenziosa, la Sila. Il paesaggio è completamente diverso rispetto a quello a cui sono abituata: un terreno arido, asciutto, crepato, in cui il verde è scomparso per farsi completamente sopraffare dal giallo. E se per viticoltura eroica si intende strappare prodotti notevoli da terreni poco incoraggianti, questa lo è eccome.
Cirò Revolution è l’appellativo che ci danno gli altri. Noi contadini non siamo così auto-celebrativi
Scendo dalla multipla di Francesco per visitare una delle sue tre vigne, quella del 2004, la più interna, ubicata su colline dolci che diventano scoscese (ha otto ettari totali, di cui sei in produzione, quasi tutto Gaglioppo, ma anche un po’ di Greco Bianco e, recentemente, Mantonico). “Il terreno qui è arido e argilloso, solo i vitigni autoctoni resistono, se la cavano alla grande anche da soli. Io intervengo pochissimo in vigna: utilizzo solo zolfo e, se necessario, rame. Pratico sovesci ogni anno con piante di leguminose che, arricchendo il terreno di sostanze organiche, lo rafforzano e gli danno una struttura”.
Francesco mi racconta di come l’allevamento ad alberello sia il più efficace per questo tipo di terreno perché ha foglie e frutto più proporzionati e riesce ad assorbire l’acqua in maniera più omogenea. Visitiamo un’altra vigna, questa volta in pianura. Mi accorgo che la stessa uva, qui, è più indietro nella maturazione rispetto alla collina. Francesco mi illumina sulle differenti espressioni del Gaglioppo: di come in pianura il vino sia più equilibrato perché c’è più disponibilità di acqua, il vitigno la assorbe più lentamente, ecco perché l’uva è più acerba, mentre ad altitudini più importanti la concentrazione alcolica è superiore.
Quello che non mi dice, perché non vuole prendersi meriti, è che esiste un Cirò prima e dopo De Franco. “Cirò Revolution è l’appellativo che ci danno gli altri. Noi contadini non siamo così auto-celebrativi”, ci tiene a sottolineare. E, con la stessa umiltà, “in realtà non abbiamo inventato nulla. Abbiamo solo avuto la coscienza o l’incoscienza (dipende dai punti di vista) di prendere il vino che esisteva già e che si beveva nelle case di Cirò, di imbottigliarlo e di portarlo in giro per il mondo”.
“La nostra rivoluzione consiste nel non inseguire un modello precostituito, ma nell’assecondare la natura: se ti da un vino con più tannini o con più alcol, te lo tieni, non lo aggiusti, non aggiungi gomma arabica o zucchero per ammorbidirlo. Il nostro credo è dare voce all’uva, alla vigna, al territorio senza maneggiare il prodotto né in vigna, né in cantina. Non facciamo vino per il mercato, ma cerchiamo un mercato per il nostro vino”, continua Francesco.
Devo tornare a Tropea in giornata, il tempo a disposizione è risicato, non riesco a visitare gli altri vignaioli, ma Francesco organizza una reunion. Ci troviamo alla gastronomia Casalura, il cui nome significa “casareccia” e il cui patron e cuoco, Peppe Pucci, dopo l’Alma e uno stage al Noma, è tornato a Cirò per rinnovare il locale di famiglia. Una proposta di alta qualità, realizzata con prodotti esclusivamente autoctoni.
La tavola è un quadrato con otto posti. C’è Cataldo Calabretta: una laurea in agraria a Milano, diverse esperienze fuori, fino alla scelta di ritornare e riprendere l’azienda dei genitori e dei nonni. I suoi ettari di vigna sono coltivati a Gaglioppo, Alicante, Ansonica, Malvasia e Greco Bianco. Sono terreni collinari, ubicati nella Doc del Cirò. Come logo ha scelto l’arciglione, lo strumento usato dai contadini cirotani per la potatura perché sintetizza perfettamente il concetto di terroir, un mix sinergico di territorio, clima, vitigno e lavoro dell’uomo.
Cataldo è vicepresidente del Consorzio del Cirò e Melissa e puntualizza: “uscire dalla Doc è la morte del vino, è perdere la battaglia per il territorio. Noi rivendichiamo la nostra identità, ma stiamo nel Consorzio perché vogliamo portare avanti il Cirò, non le singole cantine”. E La Cirò Revolution? Chiedo. “La Cirò Revolution è una piccola comunità aperta di vignaioli che collaborano per un’idea di Cirò che rispecchi il più possibile il territorio. Si basa sulla filosofia contadina del mutuo soccorso”.
C’è Francesco Scilanga dell’azienda Cote di Franze: nove ettari di vigneti coltivati, con metodo biologico, prevalentemente a Gaglioppo e Greco bianco e distribuiti in appezzamenti vitati a diverse altitudini. La cantina si trova nella Piana di Franze, che da il nome a questa realtà. L’unica vignaiola presente è Mariangela Parrilla, titolare della Tenuta del Conte. La sua storia è simile a quella dei suoi colleghi: dal 2010, dopo l’incontro con De Franco, prende le redini della produzione e converte l’azienda di famiglia al non convenzionale. Vinificazione di di uve autoctone (Gaglioppo e Greco bianco), rispetto del territorio e niente manipolazioni in cantina. E poi c’è Sergio Arcuri, con un’azienda nata nel 1880 che, dal 2010, vinifica uve Gaglioppo allevate a Cirò Marina in maniera non convenzionale.
Il metodo naturale nasce come nobile risposta a quello che era diventato negli anni scorsi il vino: un mostro barocco dove si aggiungeva la qualsiasi e si sentiva solo il legno. Ma non dobbiamo confondere il mezzo con il fine.
Bevo i loro vini e mi piacciono: mi aspetto lo spiegone sui vini naturali, che non arriva. Quando siamo quasi a fine pasto, non resisto e chiedo il perché. “Il metodo naturale nasce come nobile risposta a quello che era diventato negli anni scorsi il vino: un mostro barocco dove si aggiungeva la qualsiasi e si sentiva solo il legno. Ma non dobbiamo confondere il mezzo con il fine. Il metodo naturale è un metodo, un mezzo, ma il fine per noi è un altro: lavorare per il territorio. Non riconoscere il territorio nel vino è come fare vino omologato in barrique” concordano Cataldo e Francesco De Franco.
E nel loro vino si sente tutta l’asprezza e la caparbietà del Cirotano. Anche i bianchi e i rosati hanno corpo, personalità e tutti esaltano il cibo che mangiamo. La cucina merita un testo a parte e non avevo dubbi, dato che è da anni che predico che per mangiare veramente bene non bisogna seguire le guide gastronomiche, ma fidarsi dei vignaioli. Ho promesso che non sarei caduta nella tentazione di Soldati e non avrei parlato della sardella: non la mangiavo da almeno vent’anni (vedi sopra ‘nduja vs sardella), ma mi ricordavo bene la dipendenza che crea. Anche le altre portate non sono da meno: guanciale di maiali allevati in casa, sarde fermentate due anni in salamoia e ricoperte da una pasta cremosa di peperoncino e semi di finocchietto, spaghetti con sarde sciolte e, in primis, uno dei piatti migliori assaggiati quest’anno, cucuzza (zucca) d’acqua con polpettine di carne e crosta di parmigiano.
Termino con un liquore di peretta (limetta) che trangugio per dimenticare che al ritorno mi aspettano cinque ore di treno per attraversare il regno delle due Calabrie. Arrivo a Tropea alle 22.30 e solo allora comprendo appieno l’espressione di incredulità dei miei compaesani quando alla loro domanda “Come ci arrivi a Cirò?”, avevo risposto ingenuamente “in treno”.
Il punto però è un altro: ne è valsa la pena? Sì, perché la Calabria è un po’ come i fidanzati o le fidanzate stronze, trova sempre il modo di fregarti. Ti fa arrabbiare, ti stressa, ti complica la vita, ma poi ti ritrovi sempre a pensarla, al punto da non riuscire a tagliare il cordone ombelicale, anche se hai trascorso almeno metà della tua vita fuori.
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