Dicono che gli odori siano lo strumento più efficace per evocare ricordi lontani, e sono sicuro che se volessi riportarmi con la mente al 1999 basterebbe aprirmi sotto il naso una confezione di gel per capelli. Ma visto che il gel per capelli si è estinto intorno al 2003, saremo costretti a usare il suo equivalente sonoro: Enema of the State dei Blink-182. Quell’anno ho compiuto 13 anni, ricordo che improvvisamente ero ossessionato da parti del corpo mio e di altre persone che prima non calcolavo nemmeno e attanagliato dal terrore di un concetto nebuloso chiamato sfiga, che ti colpiva se facevi, pensavi o dicevi qualcosa di diverso dagli altri. E gli altri adoravano Enema of the State. Che cosa ha reso questo disco così speciale?
Non è che prima di Mark Hoppus, Tom DeLonge e Travis Barker il punk non fosse un genere popolare, anzi, pop: chiunque abbia un’infarinatura di chitarre distorte saprà che il 1991 è l’anno in cui il punk ha sfondato; nel 1994 è uscito Dookie dei Green Day, che con la sua hit “Basket Case” aveva portato il suono sviluppato a partire da Ramones, Hüsker Dü e Descendents fino a casa di mia zia (da lei prendeva MTV, da me no).
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In primo luogo, è difficile trovare un album che racconti così bene gli adolescenti di quel periodo. Era l’estate dell’indecenza: l’estate di film come American Pie e Dieci cose che odio di te, tutta umorismo da spogliatoio e cotte da villaggio vacanze. Essere alle superiori negli anni Novanta, a differenza di oggi, non aveva quasi nulla a che fare con lotte politiche, dibattiti sulla salute mentale, ansia per il futuro e tutte le altre questioni in cui sono specializzati i teenager del 2020. Era il momento di lanciarsi nudi in piscina e fare a gara a chi faceva le scoregge più rumorose. E Enema of the State è la fotografia perfetta di questa attitudine.
Per essere un disco che, a parte una evidentissima eccezione di cui parlerò più avanti, ha la stessa ambizione poetica e narrativa di una puntata di Paperissima, Enema of the State è un capolavoro. Nessuno ha raccontato la sindrome di Peter Pan meglio di loro in “What’s My Age Again”: la storia di uno che esce con una ragazza e sul più bello si mette a guardare la TV perché ha la sindrome da deficit di attenzione, viene mollato e decide di fare un bello scherzo telefonico alla madre di lei, facendosi inevitabilmente sgamare perché nel frattempo hanno messo uno schermetto sui telefoni che ti dice che numero ti sta chiamando. “Tutti mi dicono che dovrei comportarmi come uno della mia età / Mi ripetete quanti anni ho?” Il protagonista di “What’s My Age Again” non è solo immaturo, è un coglione. È che era un momento storico in cui essere un coglione era bello. Desiderabile. Le cose andavano bene per i coglioni.
Ovviamente la spensieratezza e la leggerezza (a tratti idiozia, diciamolo) dei testi non sarebbero nulla se non fosse per la potenza della musica. Green Day e Offspring avevano reso appetibile il suono punk alle masse, ma si preoccupavano ancora di suonare adulti, rock. I Blink-182 invece, aiutati dal visionario produttore Jerry Finn, hanno composto un disco che è l’equivalente di lanciarsi lungo una pista da sci su un carrello della spesa: un atto orgogliosamente immaturo e incurante delle conseguenze, cosa che si riflette nei suoni pompati al massimo, scintillanti, cristallini, fatti apposta per far tremare i vetri del vicinato durante una festa di compleanno. Enema of the State è un missile, con Travis Barker (al debutto nella band) che suona la batteria come un forsennato e riff dal perfetto equilibrio pop che spuntano a ogni angolo. Inutile specificare che da questo album in poi tutti i dischi pop punk hanno cercato di suonare così, spesso fallendo.
L’eccezione alla regola dell’idiozia è, ovviamente, “Adam’s Song”, l’improbabile hit che ha influenzato ormai un paio di generazioni post-emo. Ancora una volta qua ci troviamo davanti a un’espressione fortemente adolescenziale, seppur di segno opposto rispetto al resto dell’album: Mark Hoppus la scrisse in un momento di forte depressione, e la forza della canzone sta proprio nel suo modo di parlare di pensieri suicidi in maniera totalmente naïf e priva di filtri. “Non ho mai pensato che sarei morto da solo / Ridevo sempre più forte di tutti, chi l’avrebbe mai detto?” è un cazzo di pugno nello stomaco come incipit, e il primo verso del ritornello “Non ho mai vinto e sono venuto di rado” riesce a mettere insieme una citazione di Giulio Cesare (“Veni, vidi, vici”) e il peggior incubo di ogni adolescente, cioè che nessuno ti si voglia scopare. “Adam’s Song” è forse la canzone che davvero rende immortale Enema of the State, che senza di questa sarebbe stato soltanto l’inno di una generazione stupida e maschilista, ma soprattutto una generazione sconfitta: dalla strage di Columbine, dall’11 settembre, dalla guerra conseguente, dal crack del 2008.
Enema of the State compie vent’anni e, a una prima occhiata, non ha nulla in comune con i ventenni di oggi, così seri e oppressi da un sistema che li costringe a costruirsi un futuro completamente da soli. Eppure anche il teppistello che non vuole crescere e non vuole studiare, che non si vuole prendere sul serio e sfotte Backstreet Boys e Britney, ogni tanto deve ricordarsi perché vale la pena di restare al mondo.
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