L’estate scorsa stavo passando una giornata in compagnia della mia famiglia, quando la zia Else* ha detto en passant che il caro vecchio zio Holger* era nella Stasi. Siamo rimasti tutti a bocca aperta.
Per chi non lo sapesse, la Stasi era la polizia segreta della Germania Est, anche conosciuta come Ministero per la Sicurezza di Stato, che ai tempi del Muro di Berlino spiava migliaia di cittadini nella Repubblica Democratica Tedesca (la DDR).
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Tra il 1950 e il 1990, la Stasi ha potuto contare su un’enorme rete di informatori—professionisti e non—per individuare potenziali sacche di resistenza al regime socialista. A quei tempi, chiunque avrebbe potuto essere un informatore: amici, vicini e anche parenti. Molti erano costretti con la forza a collaborare, e il clima di incertezza e sospetto finiva per rovinare definitivamente molti rapporti.
Mio zio però non era un informatore; era un membro stipendiato del Dipartimento di spionaggio industriale, con una vita comoda e un piano pensionistico. Nessuno ha mai tenuto nascoste queste cose di proposito, ma Holger è morto da un po’, quindi non erano mai venute a galla. E io non ho mai fatto domande.
La Stasi dava lavoro a 12mila cittadini della DDR e oggi esiste un archivio a Berlino che contiene le informazioni raccolte. Per sapere se è stata spiata, una famiglia della ex Germania Est non deve fare altro che richiedere il proprio fascicolo. Ma in molti si rifiutano di farlo, proprio perché non vogliono sapere se qualche parente stretto li ha traditi.
Per i tedeschi nati dopo la caduta del muro, è difficile immaginare cosa abbiano passato i genitori. Ed è ancora più difficile capire perché non vogliono sapere da che parte stavano i loro cari. Ho parlato con tre giovani tedeschi per farmi raccontare come hanno affrontato un discorso così delicato con i loro genitori.
Mascha*, nata nel 1990
Sia io che Mascha abbiamo avuto una mamma single e una nonna forte. La sua famiglia stava a Weimar, a circa un’ora e mezza da Lipsia e non lontano da dove sono nata io. Ma la famiglia di Mascha non se l’è passata male dopo la fine della DDR: mentre mia madre non è mai riuscita a tenersi un lavoro per più di due anni, la sua ha fatto carriera.
Uno studio condotto dalla Fondazione Otto Brenner nel 2019 ha rilevato che le famiglie che stavano meglio durante la DDR si dimostrano spesso nostalgiche del vecchio mondo. Magari ricordano aspetti superficiali, come il prezzo delle arance e il posto fisso, e danno meno peso ai lati più oscuri di quel periodo.
Ma anche la famiglia di Mascha cercava di evitare le conversazioni più difficili. “Mi faceva arrabbiare che non si potesse mai guardare il telegiornale a casa nostra,” racconta. “Mia madre mi ha spiegato che era per farci vivere un’infanzia lontana dalla politica.”
Da giovane, la mamma di Mascha non rispettava totalmente le norme della DDR. “Leggeva i libri [sul marxismo] prestando attenzione alle discrepanze tra ciò che diceva il libro e la vita di tutti i giorni nella DDR. Era una dittatura,” dice Mascha. Sua madre ha criticato il sistema con i compagni di corso ed è stata improvvisamente espulsa dall’Università. Qualcuno aveva fatto la spia.
A Mascha è stato detto di non parlare a scuola dei problemi di sua madre. Quando è giunta la Wende (la “svolta”), sua madre ha potuto tornare all’Università e sua nonna al lavoro. Mascha parla spesso con sua madre di queste cose, e del fatto che qualcuno che le era vicino l’abbia denunciata. I nonni di Mascha hanno consigliato a lei e a sua madre di tenere un profilo basso. L’argomento è ancora tabù alle riunioni di famiglia.
Ma Mascha non se la prende. “I nostri genitori erano molto giovani a quei tempi, avevano la nostra età. Non c’erano solo buoni e cattivi, non era tutto bianco o nero. Penso che i più volessero soltanto una vita normale.”
Helene*, nata nel 1994
Per le famiglie che dopo la caduta della DDR hanno notato un peggioramento del proprio stile di vita, le cose vanno in modo diverso. Per loro, tenere vivi i ricordi è una missione in difesa della memoria. Io riconosco questo comportamento nella mia famiglia, e anche Helene nella sua.
Helene viene da (cito testualmente) “un paesello di merda tra Dresda e il confine ceco.” A quei tempi, la zona faceva parte della “Valle degli Ignari,” uno dei pochi punti in cui era impossibile ricevere la tv occidentale anche di nascosto.
Il padre di Helene veniva da una famiglia di contadini, non aveva finito l’università ma era riuscito comunque a diventare giornalista. Sua madre, invece, era stata la prima della sua classe in chimica, ma per qualche motivo non era mai riuscita a tenere a lungo un lavoro in campo accademico. I genitori di Helene dicevano che il padre guadagnava di più della madre perché lui era dell’Ovest e lei dell’Est.
“Mia madre è sempre stata brava a scuola, ma i lavori andavano ad altri perché erano iscritti al Partito [di Unità Socialista],” dice Helene. Poi sua madre era entrata in un altro partito per frustrazione, perché immaginava che così la avrebbero “lasciata in pace.” Quella è stata la fine della sua carriera nella DDR.
Helene è venuta a conoscenza del fascicolo della Stasi su sua madre qualche anno fa. Sua madre le ha detto di non essere interessata a vederlo, ma che Helene avrebbe potuto richiederlo per conto suo. Helene non se la sente. Non vuole portare allo scoperto informazioni che potrebbero distruggere la sua famiglia. “Se lei non vuole saperne niente, perché dovrei caricarmi da sola questo peso?”
Jonas*, nato nel 1989
Jonas lavora per il governo tedesco come consulente per le vittime della Stasi che cercano di essere risarcite; ha sentito decine di queste storie. È stata la storia della sua stessa famiglia a spingere Jonas a scegliere questo lavoro. È membro di una famiglia numerosa (ha cinque fratelli) che era legata alla chiesa protestante, ma viveva una vita molto riservata e frequentava persone esterne alla famiglia solo di rado.
Jonas ricorda che i suoi genitori di tanto in tanto esprimevano rabbia verso il regime: “Quando mio fratello maggiore tornò da una gita scolastica in una caserma del NVA (Esercito Popolare Nazionale), portò con sé una foto di un soldato russo.” La madre di Jonas la strappò e per questo venne interrogata dalla scuola per sapere che cosa avesse contro “l’esercito della pace.”
“I miei genitori non erano eroi, non erano la resistenza. Ma non erano neanche stupidi,” mi dice Jonas. “Mi hanno insegnato un po’ di cose.”
Jonas a volte lavora con persone ancora fedeli alla DDR. “Sentono la mancanza del senso di comunità, di coesione, di solidarietà,” dice, ma pensa che siano tutte cazzate. “Nessuno ha vietato di continuare a essere una comunità dopo il 1989.”
*Nomi cambiati per proteggere l’identità degli intervistati.