Nel 1978 l’India stava tentando di riprendersi da un decennio di conflitti brutali, disordini in politica e problemi economici. Le strade erano vive e in fermento, e i club che proponevano striptease e cabaret andavano per la maggiore. Anche se poi il tessuto sociale era logorato da disuguaglianze estreme, i festival religiosi riuscivano comunque a far emergere gioia e senso di comunità.
Mitch Epstein, un fotografo nordamericano che allora aveva 26 anni, aveva cominciato a immortalare questo momento storico incorporando l’uso del colore nella sua fotografia d’autore. “L’India, con la sua ‘diversità’ spirituale e religiosa, era diventata nella mia immaginazione un modo per fuggire da un’adolescenza scontenta e insoddisfatta,” ha scritto Epstein nell’introduzione del suo libro In India.
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Il fotografo aveva visitato per la prima volta l’India nei tardi anni Settanta, quando aveva incontrato la sua ragazza d’allora—la leggendaria regista Mira Nair, che poi avrebbe sposato e con la quale avrebbe lavorato a tre diversi film. Fino a quel momento, la sua conoscenza dell’India era limitata ai film di Satyajit Ray e alla letteratura. Una volta arrivato nel paese nel 1978, però, Epstein aveva compreso che era quasi impossibile riassumere questo Paese con le parole o con l’arte.
“Lavoravo all’interno di una cultura straordinariamente complicata, ma col grande privilegio di avere una duplice prospettiva. Grazie al mio matrimonio e alla vita famigliare ero in parte riuscito a fare mio il punto di vista delle persone native. Limitato, certo, ma sicuramente migliore rispetto a un turista,” racconta. “Allo stesso tempo, da statunitense, ero svincolato dai complessi codici sociali, culturali, religiosi e politici che regolavano le vite degli indiani e che erano legati alle caste e alle varie classi della società.”
Armato di una macchina fotografica di medio formato e di centinaia di pellicole per le quali aveva dovuto pagare un extra all’ufficio doganale, Epstein si era così messo al lavoro nel corso di otto diversi viaggi. “Non avevo la presunzione di voler realizzare un lavoro ‘conclusivo’ né mi consideravo un fotografo d’impostazione documentaristica, tuttavia per questi scatti decisi di trarre insegnamento proprio dalla tradizione documentaristica.”
I suoi sforzi culminarono in un libro fotografico intitolato In Pursuit of India e pubblicato nel 1987. Più di tre decenni dopo, all’apice dei lockdown da COVID-19, Epstein ha deciso di scartabellare tra le sue vecchie foto e ha scoperto casualmente alcuni scatti mai pubblicati.
“Ai tempi non avevo il distacco emotivo e intellettuale necessario per comprendere l’ampiezza del lavoro realizzato nel 1987,” chiarisce, aggiungendo che il suo primo libro fotografico in fondo non era altro che un’ode romanticizzata della sua esperienza. Dopo aver però guardato le foto mai pubblicate, a 35 anni di distanza, è riuscito a creare un nuova serie fotografica con una prospettiva più autentica, naturale e uno spessore diverso. Il risultato è contenuto nel libro In India e nelle immagini di grande impatto che raccontano uno spaccato della vita indiana compreso tra il 1978 e il 1989.
“Questa serie è orientata verso un’estetica formalizzata che sembra quasi rimandare ai tableaux,” specifica Epstein. “Tenevo in considerazione molteplici soggetti allo stesso tempo e cercavo di orchestrarli e organizzarli in un unico scatto. Un processo intuitivo che però richiedeva di essere scrupolosi e catturare gli eventi mentre si svolgevano.” Ogni foto, oltre a essere visivamente molto impattante, assume significati ulteriori quando Epstein condivide lo spaccato culturale che le sta dietro.
In più, ci sono anche alcuni ritratti intimi provenienti dal suo lavoro come producer di film quali India Cabaret e Salaam Bombay! “Il fatto di essere vicino a qualcuno non era necessariamente un prerequisito per ottenere una buona foto. Tuttavia, dopo aver sviluppato e consolidato il legame con alcuni dei soggetti, come le danzatrici di India Cabaret, la fiducia e familiarità raggiunte mi hanno garantito l’opportunità e il privilegio per accedere a qualcosa di più personale,” rimarca.
“Rekha, la donna che appare in alcune di queste foto, era una delle danzatrici che avevo già fotografato,” specifica. “In questi scatti, realizzati pochi giorni dopo l’assassinio della ex-prima ministra Indira Gandhi, è possibile individuare diverse immagini delle divinità insieme a fotografie incorniciate proprio di Gandhi. Della tranquilla compostezza di Rekha mi piace il fatto che si tratti di una persona nel suo ambiente. Una persona religiosa e spirituale che fuma, e la cui aria di banale vita domestica regala un’aria di sacralità.”
In un’altra foto simbolo, Epstein ritrae Rosy, una performer di cabaret con una storia che l’aveva ispirato.
“Rosy era impassibile e sfrontata, un po’ provocatrice e persino melodrammatica se si considerano le sue performance, ma era anche una persona molto sofferente,” ricorda. “Aveva lasciato il suo villaggio per venire a Bombay, ma la sua famiglia considerava il suo lavoro blasfemo e l’aveva ripudiata. Lei era a suo agio con se stessa e viveva le performance in tutta libertà, ma il dolore che portava con sé, come poi avrei scoperto, era molto vivo.”
La serie fotografica di Epstein riesce inoltre a sintetizzare le enormi diseguaglianze che si ripercuotevano sulla vita del Paese, grazie alla giustapposizione dei diversi ceti sociali. “Volevo affrontare e dedicarmi a questi poli opposti, questi paradossi, nel momento stesso in cui si svolgevano,” rimarca. Una caratteristica particolarmente evidente in una foto scattata a un hotel a cinque stelle vicino alla spiaggia Juhu di Mumbai, dove un gruppo di uomini si trova sotto un muro che li divide da alcune donne dell’alta società che si stanno rilassando in piscina.
“È un’immagine importante perché mi ha permesso di attingere alle emozioni che provavo da straniero guardando quella situazione,” spiega. “Ci sono questi due estremi tra le persone ritratte, da una parte chi sta cercando un pubblico per essere ammirato e dall’altro chi testimonia così l’indifferenza dei più ricchi. Io riuscivo a capire ed empatizzare con entrambe le parti.”
L’occhio di Epstein era veloce a catturare le disuguaglianze che permeavano la società, ma era altrettanto abile a catturare quegli spazi protetti dove le persone cercavano di sfuggire allo scrutinio pubblico. Una di queste immagini ritrae un momento d’intimità di una coppia in un parco pubblico.
“A Nuova Delhi i parchi erano il mio rifugio, una tregua dal caos della vita,” racconta. “Quest’immagine si basa su quella sensazione di quiete e riposo, in special modo per molte coppie che qui hanno passato momenti molto preziosi, coppie alle quali non è ammesso di mostrare comportamenti ‘intimi’ in pubblico. Una cosa che riguardava anche me e Mira, che spesso dovevamo affrontare il vaglio altrui in quanto coppia ‘mista’.”
In ultima analisi, nelle sue fotografie Epstein cerca di mettere insieme la miriade di ricordi, emozioni e osservazioni che hanno caratterizzato la sua esperienza in India. “Sono profondamente grato per il modo in cui ho potuto mettere in discussione ciò che davo per scontato, allo scopo di donarmi un più profondo senso dell’umiltà,” spiega. “Il fatto di essere in India e di dover abbandonare la mia comfort zone e tutti gli orpelli di cui mi ero circondato, mi ha permesso di comprendere come le cose più semplici possono donare vero amore e piacere alle persone.”
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