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Il senso di un selfie

Domenica, Dargen D’Amico ha annunciato con un post su Instagram e Facebook la sua decisione di non accettare più richieste di selfie da parte dei suoi fan. È un gesto che un tempo lo gasava, dice, ma oggi gli sembra privato di ogni senso: “Fare foto che, nel migliore dei casi si perderanno tra altre cento mila mille foto che perdete dentro i telefoni etc è una perdita di tempo“, scrive. Dargen articola il suo ragionamento in dieci punti: parla del modo in cui percepisce la sua stessa immagine, del valore di una conversazione, di quanto il pensiero dei selfie a fine concerto gli “uccida la libido“.

Il punto più interessante, credo, è il seguente: “C’è un patto di amore tra di noi e concedere un selfie significa manifestare riconoscenza a chi ti segue – no, pubblicare canzoni nonostante la timidità o riservatezza significa manifestare riconoscenza, e per piacere non scomodiamo più il nostro amore quando parliamo di certe minchionerie.” Dargen scardina in due frasi il ragionamento per cui gli artisti sarebbero tenuti a concedersi ai propri fan in quanto dipendenti dalle loro attenzioni. “Io non sono la mia immagine”, sembra opporre invece Dargen, “Ma sono la mia musica, che ti posso fare sentire solo dopo che ho sofferto e sudato per potertela regalare”.

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Scattare fotografie in maniera compulsiva è una pratica fortemente contemporanea, ma è stato l’avvento dei social media a cambiare il senso del gesto fotografico. Nell’era pre-social scattavo una foto o per piacere estetico o per immortalare qualcosa. Nel primo caso perseguivo un piacere formale; nel secondo catturavo un’immagine per sottrarla alla scomparsa, farla sopravvivere com’è stata per un attimo e poi non è stata più. Oggi, scattare fotografie è in gran parte un gesto competitivo: faccio foto per postarle su Instagram o Facebook, principalmente, e quantificare il successo della mia identità sotto forma di like.

Il selfie è la categoria fotografica in cui questa competizione si gioca più intensamente. Non presento all’altro niente se non me stesso, con l’opzione di una didascalia—spesso completamente distaccata dal soggetto, come dimostrano le miriadi di foto profilo di ragazzi e ragazze affiancate a citazioni o aforismi senza un nesso causale. E lo faccio per me stesso: potendo scegliere, non scorro feed di Instagram pieni di selfie altrui. Quando inserisco una seconda persona nel mio selfie—un cantante che amo, per gli scopi di questo articolo—vado a diminuire l’importanza del mio ruolo. Il punto dell’immagine non sono io, ma io-vicino-a-un-altro. Quello che voglio dire, più o meno esplicitamente, è “Sono con lui (e tu no), e sono felice”.

Il prezzo del mio soddisfacimento è emotivo, e viene pagato dall’artista che sceglie di apparire assieme a me. Scrive Dargen: “Il mio peso al momento non rende giustizia alla mia personalità che è assai più fine secondo me, non mi ci rivedo.” Tagliente e sincero come da sua abitudine, Dargen si espone al pubblico senza sovrastrutture: come si vergognava per il suo pelo in “The Sleepy Molotov”, qua ammette di non riconoscersi nel suo peso attuale. Quando andiamo a chiedere a una persona la sua immagine, quindi, le chiediamo di accettare quelli che lei—in quel frangente—percepisce come difetti o imperfezioni e donarli a uno sconosciuto. La persona-artista si fa simbolo: non più un individuo complesso ma un simulacro della sua arte, più o meno sensibile alla sua stessa oggettificazione.

Si potrebbe tacciare questo ragionamento di complicare un fenomeno molto più semplice di quello che sembra. Chiedere una foto al proprio musicista preferito dopo un concerto o a un firmacopie sarebbe semplicemente affermare la propria passione nei suoi confronti—e va considerato che molti artisti sono spesso ben felici di mettersi di fronte all’obbiettivo. I giovani rapper italiani, su tutti, creano engagement su Instagram anche grazie alle infinite serie di storie in cui compaiono con i ragazzi e le ragazze che fanno la coda per farsi firmare un CD: sanno che concedersi è parte del gioco, creare un legame con un pubblico la cui quotidianità comprende la competizione visuale sui social.

Decidere di non partecipare alla competizione è però una scelta legittima, e chiedere selfie a chi non vuole farsene fare è una piccola prepotenza. Non tutti gli artisti, come Dargen, propongono un’alternativa—”A mia parziale discolpa di coscienza in questi mesi, contestualmente al diniego ho sempre rilanciato […] con allegri andanti e graziosi ‘Ma godiamoci l’attimo…’ ‘Facciamo due chiacchiere piuttosto…’“, scrive. Ma non tutti possono farlo: guardate, per esempio, questo surreale video di Justin Bieber che prova a mangiare a un ristorante con un’orda di gente che gli grida addosso sperando di riuscire a catturare la sua immagine. Due mesi dopo quel pranzo, Bieber ha postato su Instagram un messaggio in cui dichiarava che non avrebbe più fatto foto con nessuno, e che si sentiva “come un animale in uno zoo”. La competizione continua, indipendentemente dal benessere di chi, inconsapevole, la alimenta con la propria fama e ne subisce le conseguenze.

Nel 1980, nel suo ultimo saggio La camera chiara, il celebre semiologo francese Roland Barthes scriveva: “Ogniqualvolta mi faccio (mi lascio) fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura (quale certi incubi possono dare). La fotografia rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un soggetto né un oggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente di diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte”. E ancora: “Io non so cosa fa la società della mia foto, che cosa vi legge […] ciò che vedo è che sono diventato Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona; gli altri—l’Altro—mi espropriano di me stesso.” Chiedere un selfie a un artista è quindi, in un certo senso, chiedergli di morire per voi. Siate grati quando accettano di farlo, e non lamentatevi se non ne hanno la minima intenzione.

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