Questo pezzo è comparso originariamente su VICE News.
Una “Stalingrado” assediata dall’autoproclamato Stato Islamico.
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Così un combattente curdo, intervistato da VICE News, aveva descritto Kobane nel gennaio del 2015.
Alla fine di quel mese, al prezzo di durissime battaglie e di molti caduti, le milizie curde dello YPG (Unità di Protezione Popolare) e dello YPJ (Unità di Protezione delle Donne) sono riuscite a liberare Kobane, trasformandola definitivamente in un simbolo mondiale della resistenza contro IS.
Alla riconquista di quel cantone del Rojava – una regione del Kurdistan siriano che si è dichiarata autonoma nel 2013, e in cui sta svolgendo un esperimento politico rivoluzionario, socialista e femminista – ha partecipato anche heval Marcello, nome di battaglia del 26enne Karim Franceschi.
Di origini italo-marocchine (il padre è stato un partigiano nella Seconda Guerra Mondiale), “Marcello” è un attivista politico dello Spazio Autogestito Arvultùra di Senigallia, la città in cui è trasferito dal Marocco a nove anni. All’inizio del 2015, appunto, Franceschi è diventato un volontario dello YPG ed è rimasto a Kobane per tre mesi.
La stampa italiana ha parlato di lui per la prima volta nel febbraio del 2015. Recentemente Franceschi, avvalendosi della penna del giornalista di Repubblica Fabio Tonacci, ha scritto la sua storia ne Il combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’ISIS (Bur), un libro che – come ha detto in una conferenza stampa a Roma – spera “verrà letto anche dai miei coetanei.”
VICE News ha incontrato Franceschi per chiedergli di raccontare cosa ha visto a Kobane, e di spiegare i motivi che l’hanno portato a combattere a fianco delle milizie curde.
VICE News: Ciao Karim. Per iniziare, mi puoi dire qual è stata la tua formazione politica?
Karim Franceschi: Ho cominciato con il movimento dell’Onda, poi sono entrato nel centro sociale e da lì ci sono sempre rimasto. Mi ha sempre affascinato l’internazionalismo. Sono cresciuto anche con i miti dei grandi rivoluzionari che si sono proiettati in avanti, rischiando tutto e lanciandosi nel buio.
Quando sono stato abbastanza maturo da partecipare anch’io a quell’esperienza, sono avvenuti i fatti di Kobane. Allora nemmeno i movimenti non conoscevano abbastanza quella realtà; ma attraverso Kobane anche noi ci siamo svegliati, siamo andati lì e abbiamo visto con i nostri occhi quello che stava succedendo.
Eravamo andati per raccogliere testimonianze, parlare con gli amministratori, i sindaci per cercare di capire cos’era il Rojava, e anche portare un po’ di aiuto umanitario ai campi profughi che ne avevano bisogno.
Cos’hai visto la prima volta che sei andato lì con il progetto Rojava Calling ?
La prima volta, al confine, in realtà ho visto poco di Kobane. Più che altro ho sentito le esplosioni, e ogni tanto ho visto i proiettili traccianti—a due chilometri di distanza è una cosa terrificante. Non mi facevo illusioni sulla gravità della situazione.
Com’è maturata invece la decisione di unirti allo YPG?
È maturata parlando con chi stava nei campi profughi, e con dei bambini soldati a proposito delle loro esperienze. Portando medicinali ascoltavo ciò che mi diceva la gente, che mi chiedeva di andare a sostenere i resistenti con le armi. Tutti i giovani infatti erano a Kobane a combattere, al di fuori c’era solo chi non poteva farlo.
Mi trovavo da questa parte, sicura, comoda, conveniente. Mentre dall’altra parte i veri rivoluzionari, i compagni e le compagne, morivano e chiedevano il mio aiuto.
Quando ti sei unito allo YPG la città era sotto assedio, e il momento estremamente caotico. In questa situazione, come scrivi nel libro, l’addestramento è stato pertanto “accelerato.”
Normalmente l’addestramento durava sette giorni, mentre ora nel Rojava dura sei mesi. Il fatto è che il numero di caduti e feriti sul fronte era così alto che servivano immediatamente rinforzi.
L’addestramento più che altro è consistito nel saper smontare e rimontare il kalashinikov e sparare dritto. Oltre a questo, in quei quattro giorni la qualità è stata veramente alta – c’è stato tantissimo a livello di teoria, capacità reattiva e altro. C’erano anche combattenti tornati dal fronte che spiegavano tattiche e strategie basate sulla loro esperienza.
Una volta finito l’addestramento, ti sentivi pronto a combattere?
Non sapevo se ero pronto o meno. Sapevo però che l’avrei scoperto una volta sul campo.
Sei andato subito in prima linea o sei rimasto nelle “retrovie,” almeno in un primo momento?
Originariamente non ero andato con l’ambizione o la presunzione di andare a combattere subito in prima linea, ma piuttosto per dare una mano dove serviva. Visto che però la prima linea era dappertutto, mi ci sono ritrovato immediatamente.
In realtà, quando mi hanno messo il kalashnikov in mano e mi hanno detto di andare al fronte ero rimasto piuttosto choccato. Il fronte è il fronte e si combatteva sempre, ogni volta che IS attaccava.
L’esperienza al fronte è stata come te l’eri “immaginata” non appena sei entrato a Kobane, oppure è stata completamente diversa?Il punto è che nei video non percepisci il freddo, la paura, e nemmeno il fatto che tu sei in uno stato normale quando vedi un avvenimento da fuori. Quando ci sei dentro, però, hai tutto un accumulo di fatiche, di stress, di paure.
In guerra il fattore psicologico è qualcosa di determinante. La grande differenza che c’è tra un combattente veterano e da uno che è uscito da un campo di addestramento è che il primo – anche se ha meno conoscenze tecniche – ha la capacità di gestire lo stress, o comunque di agire sotto forti scariche di adrelina. È questo che spesso e volentieri determina la differenza tra la vita e la morte.
Qual è stata la battaglia più dura, quella che ti è rimasta più impressa?
Sicuramente è stata la battaglia dei tre giorni [ dal 16 al 19 gennaio], quella delle continue rotazioni degli uomini dello Stato Islamico. È stata la più dura anche perché non ero pronto – diciamo che è stata una terapia d’urto – e non ero nemmeno abituato alla deprivazione del sonno
Non avevo mai combattuto, e la prima volta che mi sono ritrovato a combattere l’ho fatto con quel tipo di intensità – tant’è che i ricordi che ho sono molto frammentati, e abbiamo dovuto fare un enorme lavoro per ricostruirli e metterli nel libro.
Verso la fine dei tuoi tre mesi da volontario dello YPG ti sei ritrovato a fare il cecchino. Mi puoi raccontare com’è vivere la guerra da cecchino, e qual è il ruolo dei cecchini in questa guerra?
In quel tipo di conflitto i cecchini sono utilizzati come una forza d’élite che viene lanciata di volta in volta nei teatri di battaglia più intensi. Stando in un fronte normalmente incontri dei combattimenti, ma hai anche delle lunghe pause in cui si può prendere fiato. I cecchini, invece, vengono mandati esclusivamente a combattere.
Non mi aspettavo, comunque, di diventare un cecchino. Probabilmente mi hanno scelto perché sapevano che avevo una buona mira; o forse per l’alto numero di caduti dentro quell’unità, ed il disperato bisogno di avere nuova gente.
All’improvviso, dunque, mi sono trovato con più responsabilità. I cecchini nello YPG non rispondono alla normale di catena di comando, e non hanno comandanti quando vanno sui fronti. Questo, appunto, implica più responsabilità, visto che i cecchini devono sapere come servire al meglio i propri compagni nel determinato fronte in cui operano.
Nel libro parli di due stati d’animo ambivalenti: quello di voler andare via in certe occasioni; e quello, in un altro momento, di rimanere anche oltre la scadenza del visto di tre mesi.
Chiaramente non è stato tutto rose e fiori. Ci sono stati momenti in cui non ce la facevo più, ero arrabbiato, stanco o impaurito, e volevo semplicemente andarmene. Certo, poi c’è stato anche il momento in cui volevo rimanere; la verità è che volevo farlo per i miei compagni, non volevo abbandonarli. La guerra non era finita quando sono tornato in Italia, e questa è stata la parte sicuramente più dura – quella cioè di lasciare i compagni in quell’inferno.
Quanto sono importanti gli “internazionali” come te – sia dal campo che fuori dal campo – in questo tipo di guerra?
Per quanto riguarda me, ad esempio, ora ho la possibilità di parlare ai miei concittadini con un linguaggio e una mentalità che capiscono e spiegare cosa sta succedendo laggiù.
Anche a livello militare gli internazionali hanno un enorme significato, poiché vederli arrivare aumenta in maniera significativa il morale. E il morale determina veramente chi vince e chi perde nel campo di battaglia.
Tu dall’Europa sei partito per unirti allo YPG. Sempre dall’Europa, però, ci sono persone che partono e vanno nelle file dello Stato Islamico. Nel libro a un certo punto ne parli, dicendo che “potrei essere uno di loro, se non fossi invece l’esatto opposto.”
Il problema è molto serio. Il livello qualitativo della propaganda di IS è molto alto, e ha la capacità di sfruttare le nostre debolezze per reclutare giovani che magari si sentono persi, marginalizzati e non accettati.
Lo Stato Islamico ha un’arma molto efficace per reclutare questa gente. Se guardiamo ad esempio i nostri media, dall’11 settembre in poi la figura di un arabo, di un musulmano, ha sempre avuto un ruolo estremamente negativo.
Manca insomma l’immagine “positiva,” e IS ha riempito quel vuoto con la sua propaganda dando l’immagine fiera e orgogliosa di un musulmano che combatte. Ha detto “venite, lo Stato Islamico è la vostra casa” quando qui c’erano xenofobi che dicevano “tornatevene a casa vostra.” Molti di quelli che ci vanno sono catturati da questa propaganda. E si tratta di una propaganda che può catturare veramente chiunque.
Al di là della propaganda, e visto che ci hai avuto a che fare sul campo, com’è IS da un punto di vista militare?
La loro leadership a livello militare e strategico è estremamente intelligente, capace e addestrata. È anche ben armata, ben finanziata e pericolosa. Anche il combattente medio di IS, comunque, è un combattente capace, addestrato, che spesso e volentieri non ha paura della morte. In più, è anche equipaggiato con armi di ultima generazione, fornite da un paese membro della Nato.
Dopo essere tornato in Italia, come ti sei ritrovato nei panni di un “civile”?
Quando sono tornato, nonostante tutto il grande supporto che ho ricevuto, ho avuto dei momenti molto difficili. Oltre al fatto di essere uscito da un’esperienza molto traumatizzante, venivo a sapere che i compagni continuavano a morire a Kobane. Molti di loro li conoscevo, erano come dei fratelli. È stato molto duro.
Hai dovuto affrontare qualche conseguenza per aver combattuto con lo YPG?
Ho chiarito la mia posizione con gli organi competenti.
Te lo chiedo perché ultimamente si parla molto di foreign fighters, per i quali sono state previste pene più elevate nel nuovo decreto antiterrismo approvato nell’aprile del 2015.
C’è molta confusione su questa legge. Quest’ultima colpisce i foreign fighters che si uniscono a organizzazioni terroristiche, altrimenti colpirebbe anche chi si arruola nei marines. Lo YPG e lo YPJ non sono organizzazioni terroristiche, ma sono all’interno di una coalizione internazionale che vede Francia, Stati Uniti e altri insieme a combattere contro IS.
A questo proposito, secondo te il Rojava riceve abbastanza supporto – di tipo politico, mediatico e militare – nel combattere lo Stato Islamico?
Riceve scarso supporto in tutti e tre i campi. Il supporto militare è basato solo sugli airstrike, e su piccole ed isolate forniture di munizioni. Non esiste una fornitura di armi adeguata: la maggior parte dell’arsenale YPG è composto da armi obsolete.
Per quanto riguarda quello politico, non va oltre il tenere a bada la Turchia. Le frontiere sono tutte sigillate, vi è un embargo in corso da parte di Turchia e Governo Regionale Curdo. I media, sopratutto quelli indipendenti, hanno sempre giocato un ruolo importantissimo nel dare al mondo una fotografia accurata della rivoluzione nel Rojava e del Confederalismo Democratico.
Ultimamente è difficile per i giornalisti internazionali attraversare la frontiera controllata dai peshmerga di Masoud Barzani. Dal territorio iracheno del Governo Regionale Curdo, alleato dalla Turchia, è possibile ottenere un permesso stampa una volta sola, per entrare in Siria, in territorio controllato da YPG e YPJ. C’è in corso una strategia dei paesi confinanti di isolare questa rivoluzione delle donne, e non permettere al mondo di conoscerla.
Recentemente sei tornato a Kobane per una seconda volta. Che cambiamenti hai trovato?Kobane è una città curda, e al tempo dell’assedio i compagni e le compagne erano curdi e curde, e Tell Abyad ci separava dal resto del Rojava: Hasaka, Qamishlo, Serekani.
La seconda volta ho trovato un’enorme componente etnica di arabi, assiri, armeni. Hanno formato una coalizione insieme ai curdi basata sui principi della democrazia confederale, chiamata Forze Democratiche Siriane. Quella contro lo Stato Islamico non è più una lotta solo dei curdi, ma di tutti i popoli democratici.
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