Da sinistra, nella foto: Mitski, Evan Hall dei Pinegrove, Car Seat Headrest, Jeremy Earl dei Woods, i King Gizzard & The Lizard Wizard e i Crying.
La perdita di significato delle parole è un processo che va, normalmente, di pari passo con la loro portata. Più persone sanno cosa sono il rock, il punk, l’indie, l’emo, la house e così via, più la definizione delle parole “rock”, “punk”, “indie”, “emo” e “house” si farà confusa: e così finiscono le amicizie, perché uno dice che i Foo Fighters fanno punk e all’altro parte un embolo che se lo porta via da questa valle di lacrime. Ma sto divagando: il punto è che definire le cose è sempre più difficile dato che sempre più persone le fanno, quelle cose. Esempio: le liste di generi affiancate ai brani che ci vengono proposti, ormai un generale tentativo fallito in partenza di indicare per enumerazione come suona quello che stai andando ad ascoltare. Come vi immaginate una suite post-punk tra influenze kraut e ambient e che strizza l’occhio al lo-fi? Come un pastrocchio? Ecco.
Tra tutte le macro-categorie che usiamo per dire, “hey, ascolto questo!” la più in crisi è indubbiamente il rock. Ma roba che il conflitto tra rap e trap è un’amichevole scazzottata. Che cos’è il rock oggi? Basta avere solo una batteria, un basso, una chitarra, una voce e semmai una tastiera per farlo? Bisogna mandare affanculo il sistema? Devi metterci gli oooh-oooh-oooh da stadio? Devi dire che fai indie? Devi metterci le distorsioni acide? Devi fare il cantautore sperimentale? Boh. Ma anche, chissenefrega: la varietà porta vita, l’omologazione la toglie. Ma la varietà è più difficile da inquadrare, e quindi da presentare a un vasto pubblico che già di per sé tende a non volersi interessare di cose che non ha già conosciuto per i cazzi suoi. La realtà è quindi che certe cose, potenzialmente apprezzabili da un sacco di gente, si perdono negli algoritmi di Facebook in favore di articoli che, detto semplicemente, tirano di più.
Di “articoli che tirano di più”, quest’anno, ce ne sono stati tanti per un semplice motivo: la scomparsa di molte persone che hanno a tutti gli effetti definito negli anni le sfaccettature del termine “rock”. David Bowie, Leonard Cohen, Prince, Keith Emerson e Greg Lake, Sharon Jones, Alan Vega dei Suicide, Paul Kantner dei Jefferson Airplane, Glenn Frey degli Eagles, Bernie Worrell dei Parliament-Funkadelic. Possiamo contare anche Lemmy, morto alla fine di dicembre 2015. Nomi che hanno dentro la miriade di rivoli nati dal grande fiume che è il rock; tutti morti negli ultimi mesi. E se avete diciotto, ventotto, trentotto anni potete anche farvene una ragione e continuare ad ascoltare quello che ascoltate come se nulla fosse: la cosa, probabilmente, non vi tocca nel profondo. Ma se ne avete qualcuno in più, probabilmente, state iniziando a prendervi male. “Ormai i gusti e le antipatie di una volta non contano più niente”, ha scritto su Facebook un amico che di anni ne ha quarantotto, “Prevale solo la malinconia per un mondo e un’epoca che se ne stanno andando un pezzo alla volta.”
Questo processo ha portato i media musicali del mondo intero a pubblicare una grande serie di articoloni in onore dei grandi scomparsi del rock: inevitabili, sicuramente pieni di spunti interessanti, ma spesso molto difficili da diversificare. Nonostante questo per i siti sono garanzia di click, per le riviste garanzia di vendite.
A soffrire, in questo acquario mediatico-musicale, sono i pesci più piccoli. Certo, portano meno visualizzazioni e/o copie di un mostro sacro: ma esistono, e in qualche modo riescono a riportare il discorso storico del rock alla contemporaneità complessa in cui vivono. Fanno album che potrebbero piacere a chiunque, e invece spesso devono lasciare posto a chi è lì da più tempo di loro. Il che non è intrinsecamente giusto o sbagliato ma è, credo, occasione per pensare un attimo al fatto che in realtà nel 2016 sono usciti un sacco di bei dischi rock. Album con spunti di cui in Italia non ci siamo accorti proprio tutti: e questo per barriere linguistiche e/o generale minore attenzione a quello che succede nel resto del mondo.
Ma non è questo il punto, oggi. Il punto è che qua sotto trovate sei cose rock uscite quest’anno che credo si meritino di essere ascoltate. Per evitare pipponi, ho parlato solo di una canzone per ogni album. Ma in realtà sono i dischi interi ad essere fighi. Sappiatelo!
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Quello qua sopra è il video di “Your Best American Girl” di Mitski, che se ne è uscita quest’anno con un album dal titolo semplice semplice: Puberty 2. È una canzone breve e diretta: due note di acustica, un crescendone e un ritornellone con le chitarrone sparate a un milione. Ma questa sua accessibilità è brutalmente efficace, soprattutto se la leghiamo alla narrazione che anima il testo del pezzo. Mitski Miyawaki è di New York, ma la sua famiglia no, e “Your Best American Girl” è il suo modo per affermare in tre pratici minuti sia l’orgoglio che prova nei confronti del suo retaggio meticcio che le derive dannose di una socialità non inclusiva. “A tua madre non piacerebbe come mia madre mi ha cresciuta / Ma a me piace, credo mi piaccia”, canta, “E tu sei il perfetto ragazzo americano / In fondo mi è venuto naturale provare a essere la tua perfetta ragazza americana.”
Prima o poi ci siamo tutti sentiti inadatti ad amare o ad essere amati da qualcuno. Tutti abbiamo visto una persona a cui eravamo legati limonare qualcun altro. Tutti ci siamo sentiti sbagliati, bruttarelli e sfigati. Mitski contrappone al rifiuto dell’altro un incrollabile amore verso sé stessa, e vederla slinguarsi la mano mentre di fronte a lei due modelli di American Apparel si stoccacciano è una fonte di ispirazione enorme per chiunque non aderisca ai canoni estetici dominanti e/o sia diverso dalla norma bianca, caucasica e impiegata che la società di oggi sembra tanto adorare. E questa è solo una delle piccole storie personali che Puberty 2 racconta, tra lavori che non ci sono e sogni di gloria e paranoie sulla propria libertà sessuale.
C’è una certa incertezza latente nelle parole di Evan Stephens Hall, il tizio biondo nella foto qua sopra e forza creativa principale dietro ai Pinegrove, che vengono dal New Jersey e hanno pubblicato quest’anno il loro album d’esordio Cardinal. Essendo un gruppo interamente DIY━nel senso che si organizzano i tour mondiali interamente da soli e con la forza del passaparola dormendo a casa della gente e girando col furgoncino━il livello di eco che hanno raggiunto quest’anno in giro per il mondo è notevole. La loro forza è la scrittura di Hall, che se volesse fare un sacco di soldi e diventare come Ben Howard o Damien Rice potrebbe benissimo farlo, come dimostra questo video, e invece no.
Cardinal è, nel suo profondo, un disco alt-country scritto da un tizio con una voce di cristo e una capacità non indifferente di comporre pezzi strappalacrime senza dire banalità. Anche solo il primo brano, “Old Friends“, ha dentro così tanti fili narrativi che viene difficile sgomitolarli. Il narratore cammina per una città che chiama “labirintica”━visione palesemente irreale data la qualità ordinata e geometricamente regolare degli agglomerati urbani americani━e pensa al fatto che gli sembra che tutto gli vada sempre male. Ma lo fa senza lamentarsi, in favore di uscite diaristiche (“Qualche mese fa ho visto Leah sul bus, ho visto qualche amico al suo funerale”) e auto-pacche sulle spalle (“E così vado avanti, fino in fondo / Ho riconosciuto la felicità appena l’ho vista”).
A sentire il modo in cui i testi di Hall si intrecciano con la musica dei suoi compagni di band ci si sente (la sparo grossa) di fronte agli ideali albori di una nuova grande musica tradizionale americana. Il mito della Frontiera e dei Grandi Stati Uniti è ormai lontano, appropriato dalla Nuova Grande America trumpiana; ma le stesse fondamenta musicali possono sostenere un nuovo tipo di narrazione, adatto a raccontare gli straniti Stati Uniti di oggi. E quella dei Pinegrove, profondamente incerta, è adatta a farlo.
A rilavorare e rovesciare la tradizione ci sono anche i Crying, che sono riusciti con Beyond the Fleeting Gales nell’improbabile compito di creare una sorta di versione al passo coi tempi dell’AOR e del prog rock patinato degli anni Ottanta, cioè i generi peggio invecchiati della storia dopo il nu metal. Per essere chiaro: io mi piglio bene a gridare “CARRY ON MY WAYWAAARD SOOOON” e “IT’S THE FINAAAL COUNTDOOOWN” tanto quanto tutti voi, ma è innegabile che quel modo di fare musica fosse legato a coordinate spaziotemporali ben precise che oggi fanno storcere il naso all’86% della popolazione mondiale. Ecco: i Crying, in qualche modo, sono riusciti a ricreare una versione non-cringe di quella roba lì, partendo tra l’altro dalla chiptune.
Le loro primissime cose erano decisamente incentrate sul suono 8-bit, ed era improbabile immaginarsi un album come questo nel futuro dei Crying: sfacciatamente e consciamente esagerato, ma proprio grazie a questo rivelatore della natura machista del rock più patinato. Se ascoltate un brano come “Revive”, qua sopra, direte “Cazzo, i Van Halen!” Ed è una cosa che realisticamente nessuno dovrebbe più dire, nel 2016, ascoltando un inedito. Ma se a cantare non c’è un maschio vestito di spandex ma Elaiza Santos, una ragazza incredibile che non rientra per nulla nei canoni di “indie girl figa”, quel modo di suonare viene subito avvolto da una genuinità clamorosa. Mettiamoci poi che i testi sembrano presi dai dialoghi di un RPG degli anni Novanta e passati per il frullatore di una sensibilità acutissima e abbiamo abbastanza per dire che i Crying sono un gruppo, a tutti gli effetti, unico. E quindi, credo, preziosissimo.
Quest’anno, poi, è successa una cosa che mi auguravo da un pochetto: Will Toledo, cioè Car Seat Headrest, cioè il tizio con gli occhiali a sinistra nella foto qua sopra, ha sfondato. Almeno, “sfondato” per quanto possa sfondare il progetto di un ragazzo appena maggiorenne che ha prodotto e pubblicato su Bandcamp una decina di album uno più ambizioso dell’altro tutto da solo parlando con una lucidità terrificante della sua sessualità, di letteratura, religione, droga e depressione. Tra l’altro apprezzo molto il fatto che Toledo sia riuscito a scrivere concept album convincenti e abbia dei momenti in cui gioca con i tòpoi della narrazione rompendo la quarta parete (vedi il finale di “Nervous Young Inhumans”). Morale: contratto su Matador, tour in giro per il mondo, album ben recensito ovunque. E anche se Teens of Denial non è il suo LP migliore (ciao, Twin Fantasy!), il fatto che Will prenda finalmente effettivamente dei soldi per quello che fa mi rende molto felice.
Will dimostra come sia possibile costruire immaginari lirici davvero densi e interessanti da sviscerare. Quando, in “The Ballad of Costa Concordia“, si paragona a Schettino per aver fatto naufragare la sua vita (“Come facevo a sapere come condurre questa nave?”), non si limita a buttarci lì un riferimento e finita: ci compone una canzone da dieci minuti ben fatta e ben pensata, che non annoia e ha dei climax lirici che è molto dura trovare in giro. Vederli da Jimmy Fallon a paragonare guidatori ubriachi a orche assassine è una dimostrazione che è possibile arrivare da qualche parte senza necessariamente dover fare i paraculi, gli indignati, gli ironici o i “poeti”.
Ci sono, infine, tre progetti che sono semplicemente riusciti a tirare fuori musica non particolarmente originale a livello sonoro ma decisamente a fuoco nel suo aderire a grandi tradizioni. Gli australiani King Gizzard & The Lizard Wizard sono usciti con Nonagon Infinity, il loro ottavo LP in sei anni di garage rock, psichedelia e acidità varie. Per qualche motivo che non riesco bene a identificare, i King Gizzard sono riusciti a tirare su una discografia senza risultare mai noiosi, rifacendosi ogni volta a un immaginario diverso mantenendo però una certa coerenza artistica nel loro presentarsi come big band con due batteristi e tre chitarristi dagli ingranaggi così oliati che possono fare un concerto mischiando tutte le loro canzoni l’una con l’altra, come se fosse un gioco. Quest’ultimo album, smaccatamente ispirato ai b-movie di qualche decennio fa e alla fascinazione con l’occulto dei rocker dell’epoca, è davvero divertente: non si ferma un secondo, ha titoli idiotissimi come “PEOPLE-VULTURES” e ammicca alla sua natura di traccia in continuo divenire richiamando temi e parole di canzone in canzone, attaccando la sua ultima nota a quella di inizio.
Altro caso di band che è riuscita quest’anno a uscirsene con un album maturo e identitario sono i Woods, che con City Sun Eater in the River of Light hanno buttato fuori una sorta di versione moderna di Déjà Vu di Crosby, Stills, Nash & Young ma molto più acida e desertica. Nati come progetto da cameretta freak-folk, i Woods sono riusciti a fare il secondo disco di fila, e per “disco” intendo “serie di canzoni unite da un intento comune con un forte immaginario lirico dietro”. Nonostante sia un album sporco di terra e sabbia, City Sun Eater è in realtà un disco che parla di vita cittadina e della frenesia insita negli enormi agglomerati urbani che crediamo essere i veri influencer della nostra società, scritto dalla prospettiva di un ragazzo che ha abbandonato New York City per poter effettivamente vivere della musica che faceva. E chiunque ha mai vissuto in una grande città può, ascoltando pezzi come “Sun City Creeps“, immaginarsi annaspare tra terriccio di aiuole, smog e incroci bloccati.
Concludo con Dusk degli Ultimate Painting, due tizi inglesi che da un paio di anni a questa parte sono tra i pochissimi ad essere riusciti a non far sembrare “avere gli anni Sessanta come influenza” un espediente per tirar su due soldi dai nostalgici del genere, come è accaduto con i Lemon Twigs━adolescenti introdotti al mondo da Jonathan Rado, di quegli altri rivistatori seriali che sono i Foxygen━meritevoli di essere riusciti a condensare ogni stereotipo di quegli anni in quaranta minuti di inediti che sembrano b-side di qualche band che all’epoca non era riuscita a sfondare.
I Painting, piuttosto che cercare di emulare quell’estetica, la adottano come i due nerd mega appassionati di chitarre pulite, canzonette d’amore e fruscii vari che sono. Quando suonano non hanno bisogno di infilarsi un costume: si limitano a buttare fuori piccole perle di pop chitarristico che ampliano leggermente i confini di quell’indie rock americano chitarristico alla Real Estate che sembrava essersi estinto nell’ultimo paio d’anni. Anche in questo caso, non so che cosa sia a renderli efficaci: ma sfido chiunque non ribrezzi i tardi anni Sessanta a non trovare godibili brani come “Bills“, ad esempio.
Niente, panoramica finita: queste sono le cose rock che mi hanno fatto prendere meglio quest’anno. È tutto molto soggettivo, sono sicuro che quelle che hanno fatto prendere bene voi e di cui io non ho parlato sono comunque molto belle. Di base, devo dire che nonostante l’hip-hop continui a prendersi sempre più spazio e far incazzare Roger Daltrey degli Who fino a fargli dichiarare che “il rock è morto”, non ha senso affermare la scomparsa di qualsiasi genere. Il punto è che non è questione di opporre paradigmi: rap contro trap, rock contro rap, techno contro EDM. Ognuno può scegliere la colonna sonora che gli pare, per la propria vita. L’importante resta non fossilizzarsi, aprirsi alle ibridazioni e cercare di capire il presente.
Ah, a gennaio escono i nuovi album di Cloud Nothings e Japandroids. Al prossimo giro, con il rock, cominciamo bene.
A febbraio Mitski suona a Bologna, mentre i Crying a Milano e Verona assieme agli Hotelier. Andateci!
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