Non credo serva una statistica ufficiale per affermare che la portata più richiesta dalla clientela italiana in un ristorante cinese siano i ravioli. Ok zuppe e scodelle di fuoco e involtini primavera, ma è raro che qualcuno lasci un ristorante cinese senza portare con sé almeno un raviolo nello stomaco.
L’enorme successo di questa portata presso i palati italici ha dato la spinta alla sua onnipresenza nei ristoranti di cucina cinese nonché all’apertura di locali ad hoc, o catene italiane che rielaborano il concetto declinandolo in chiave nostrana.
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Non essendo io un’eminenza grigia della cultura gastronomica cinese ma dato che rientro tra i fan morbosi dei ravioli, soprattutto alla piastra, ho deciso di fare un giro con una persona che ne sa certamente più di me sull’argomento. Per questo tour farcito per alcuni ristoranti cinesi di Milano mi accompagna Jada Bai, nata nello Zhejiang, una regione a sud di Shangai, vive a Milano dall’età di 4 anni, laureata in Mediazione Linguistica e Culturale. Oltre a essere lettrice di lingua cinese dell’Università degli Studi di Torino, scrive di diaspora della Cina e condizione femminile cinese per celebri testate nazionali. L’identikit perfetto per sapere di più sui ravioli e la cultura cinese attraverso i ravioli.
Baobing zona Bocconi
La prima tappa è Delicious Baobing, sono le 11.30 e il servizio non è ancora pronto, ci tocca attendere un po’ prima che arrivino due ciotole di huntun a forma di fagottino, ravioli tradizionali del Sud della Cina, zona da cui proviene la famiglia proprietaria del locale.
Gli huntun erano utilizzati come piatto medicinale che in inverno aiutava ad evitare i geloni, erano infatti serviti nella zuppa calda con un ripieno di carne di agnello e pepe
Una volta staccate le bacchette di legno, Jada le strofina una contro l’altra alle due estremità. Dice che è una pratica personale per eliminare scaglie che possono finire in bocca o conficcarsi nelle dita. Mi sembra una giusta causa per imitarla ma per farlo al meglio anche dopo devo anche adattare la mia scarsa gestione manuale delle bacchette. Jada mi dice che, parlando con un maestro d’etichetta cinese, ha scoperto che la bacchetta sotto non poggia sul medio ma sta tra anulare e medio mentre indice e pollice muovono quella sopra su e giù come una leva. Non sono un campione di presa con le bacchette e dopo qualche tentativo scomposto intuisco che dovrò rincorrere ravioli che fanno skate sul tavolo per tutto il giorno.
Prima di assaggiare, Jada mi dice che gli huntun sono la matrice di tutti i ravioli cinesi, la forma a fagotto dalla chiusura semplice è l’origine di tutti quei bei ravioli serrati con precisione artistica che sembra un peccato mangiare.
Jada mi spiega: “Gli huntun nascono durante la dinastia degli Han Occidentali (25AC – 220AC), l’epoca dei primi imperatori. Erano utilizzati come piatto medicinale che in inverno aiutava ad evitare i geloni, erano infatti serviti nella zuppa calda con un ripieno di carne di agnello e pepe.”
I ravioli qui sono tutti ripieni di gambero, una porzione in brodo di alghe, l’altra con un sughetto condito con coriandolo. Gli huntun col sughetto sono delicati e nonostante il coriandolo colonizzi la ciotola e io non sia un estimatore del suo sapore detersivato, non dominano ma accompagnano il ripieno nel grembo di una sfoglia liscia. A Jada piacciono subito gli altri mettendo in risalto l’equilibrio tra tutti i sapori in concorso e non posso darle torto: il brodo d’alghe è raffinato e non c’è una punta di sale in più, sa di alga ma non sembra di leccare il fondo dell’Oceano Pacifico, è salmastro il giusto per ricordarti che c’è qualcosa che viene dal mare.
Due ulteriori note d’etichetta: sebbene in Italia far rumore quando si mangia sia maleducazione, in Cina il suono del risucchio è funzionale all’aspirazione e va emesso senza esitazioni. Mi adeguo con sommo gaudio. E tra una portata e un’altra le bacchette vanno pulite dai rimasugli di cibo, non col tovagliolo ma con la bocca.
Ravioleria Sarpi
Acchiappiamo un taxi il cui nome finisce per 88, Jada mi spiega che è di buon auspicio. In Cina l’8 è un numero fortunato, a differenza del 4 e non è un caso che le Olimpiadi di Pechino siano iniziate l’8 agosto alle 8 del 2008.
Arriviamo in via Paolo Sarpi, la zona di Milano a più alta densità di locali di cucina cinese. Prima di rifornirci di altri ravioli, Jada mi dice che la cucina cinese si divide in 8 grandi cucine regionali, caratterizzate da tecniche e uso di ingredienti. Per capire la versione “nostrana”, Jada mi spiega che non può essere omessa la diaspora cinese che ha avuto un picco nell’Ottocento verso gli Stati Uniti e che ha dato inizio alla diffusione della cucina cinese nel mondo. I piatti giunti da noi approdano infatti negli USA, si raffinano poi in Francia e solo dopo arrivano in Italia.
La Ravioleria di via Paolo Sarpi è una tappa obbligatoria. Sebbene qualcuno pensi che ci sia troppo hype attorno ai ravioli di questo piccolo “drive-in” pedonale con cucina a vista e la fila perenne, ci pensa Jada a smentire. Il fatto che in carta abbiano appena cinque portate tra ravioli, crepes e tempura significa concentrare tutti gli sforzi su poche cose fatte con cura e precisione.
In più c’è attenzione agli ingredienti, dal porro di Cervere Presidio Slow Food alla carne di piccoli allevamenti piemontesi e lombardi della macelleria Sirtori due porte più in là. Jada mi consiglia di prendere quelli ripieni di maiale e zenzero, tradizionali del nord della Cina, li conosco ma un ripasso non fa mai male.
La radice è calibrata al milligrammo per pungere lievemente senza fare a pugni con la carne, la cui grana è distinguibile in piccoli pezzetti, non la pasta pre-masticata che non di rado si trova in giro. Un dettaglio che mi sfugge ma che intercetta Jada è la lieve acidità della carne dovuta a una qualche marinatura, probabilmente con mirin e soia. Essenziali e efficaci, le chiacchiere restano tali.
Bokok
Pochi metri più in là c’è Bokok, qui la cucina è di etimo cantonese. Il locale è un format con un altro punto nella stessa via, sembra una caffetteria letteraria coi muri vestiti di libri incassati in alte librerie a scompartimenti quadrati e piante piazzate negli angoli giusti a rilassare la vista.
Quando approdano due cestelli di ravioli al vapore coloratissimi Jada entra nel dettaglio su come si riconosce un raviolo proveniente da una zona della Cina piuttosto che un’altra: al nord sono più grossi e irregolari e di base bolliti, dalla sfoglia spessa e imperfetti nella loro forma casalinga, come quelli della Ravioleria mangiati poco prima. Al sud, invece, sono più piccoli e cotti al vapore, molto precisi nell’estetica. Jada mi dice: “Al sud i ravioli sono diventati anche un piatto gourmet e infatti hanno ripieni più ricercati come gamberetti, pesce, granchio, funghi e verdure e addirittura, spaghetti di soia saltati con verdure.”
Guardando il menu realizzo solo ora che i ravioli stanno tra gli antipasti e non tra ipotetici primi. Jada mi dice che in Cina i ravioli sono considerati antipasti e non un primo come noi intendiamo la pasta ripiena. E lo sono perché piccoli, come dei finger food.
I ravioli al vapore di Bokok sono piccoli fagottini in stile cantonese dai colori diversi e forgiati con precisione. Le sfoglie multicolori corrispondono anche a ripieni multigusto: giallo con pasta allo zafferano e ripieno d’arrosto, elegante e succulento; sfoglia rossa con ripieno di granchio, buono ma senza impazzirci; pasta al nero di seppia e ripieno di calamaro, il più interessante col mollusco appena rosolato; il verde ha un ripieno misto di verdure, delicato e armonico; l’unico che non arrivo a assaggiare è quello ripieno di gambero ma mi fido di Jada che lo trova ottimo e evidenzia come qui ci siano rielaborazioni italianizzate, soprattutto il raviolo allo zafferano, molto milanese.
Non la vedo però intingere i ravioli nella salsa di soia, cosa che ho fatto per un paio di bocconi. Mi spiega Jada che si ricorre all’umami spinto della salsa solo quando il ripieno non è molto saporito e necessita supporto ma se è fatto bene e ha un’identità definita il fagotto viaggia da solo. In Italia pensiamo invece che sia doveroso annegare ogni malcapitato raviolo nel liquido scuro. Prendiamo nota
Jinyong
La quarta tappa del giro è la trattoria Jinyong, all’inizio di via Paolo Sarpi e in cui ero già stato (così come la Ravioleria e Bokok) serbando un buon ricordo. Sono quasi le 14 e il caldo sembra un il reattore di un aereo sparato addosso che aumenta quando ci sediamo nel piccolo dehor esterno che crea una meravigliosa e sudoripara serra.
La famiglia proprietaria viene dalla regione a sud di Shangai, lo Zhejiang, la stessa di cui è originaria Jada e da cui proviene la maggior parte della comunità cinese in Italia. Jinyong vuol dire “corrente dorata”, un nome evocativo in linea con lo stile delle trattorie cinesi d’epoca e a cui anche quelle italiane non sono immuni. E qui Jada mi spiega l’arcano degli huntun: sono i wonton riportati in questo menu e che ovviamente conoscevo ma il nome diverso mi aveva depistato. Jada mi spiega il motivo della differenza. Prima del 1956, quando la Repubblica Popolare Cinese ha stabilito la grafia ufficiale, il piatto si chiamava wonton, poi ufficialmente modificato in huntun. Il nome non è quindi una deliberata scelta gastronomica ma una precisa politica statale. Se può interessarvi, i wonton in Cina si mangiano anche a colazione.
Prendiamo ravioli di carne in brodo, piccoli e dalla forma armonica, che in lingua madre si chiamano shui jiao, i “ravioli d’acqua”. Con una diversa intonazione la stessa parola vuol dire “dormire”.
Col mio naso da lagotto romagnolo afferro subito la nota tostata dell’olio di sesamo ma è in bocca che parte il festival. Jada nota come la forma sia tondeggiante ma lievemente oblunga e entrambi conveniamo sul pacato uso dello zenzero nel ripieno. Ma come da Delicious Baobing, è il brodo il protagonista, rotondo perché emana tutti e 5 i gusti fondamentali senza sbilanciarsi mai verso un vettore. Sento un costante aroma di pomodoro che però è la gentile acidità dell’aceto.
Prima di saldare il conto riceviamo i proverbiali biscotti della fortuna, fin qui non ancora apparsi, un’occasione ghiotta per chiedere a Jada da dove provengano, se dalla Cina o ce li siamo inventati noi in Occidente. L’origine ha una correlazione coi ravioli. È la rielaborazione sino-americana di una tradizione tipica del nord della Cina. Per il Capodanno Cinese si preparano i ravioli e in alcuni, nel ripieno, si mette una moneta e il fortunato che la trova, se la tiene, sperando che si tenga anche tutti i denti.
The North Gate
Alle 15 la cucina di Lu Pechino in viale Brianza, poco fuori la raggiera di Piazzale Loreto, ha già chiuso e dopo un saluto con Jada che sancirebbe la fine del tour lei stessa mi ricontattata poco dopo perché ha trovato un ristorante aperto a metà di viale Monza. Qualcuno ha chiesto un encore?
L’insegna è ancora quella della vecchia gestione, Wang Guiren, i nuovi proprietari lo cambieranno presto in The North Gate, quasi il titolo di un album epic metal. Veniamo serviti molto rapidamente e mentre osservo la chiusura simile ai culurgiones dei ravioli al vapore appena arrivati, chiedo a Jada se il luogo comune secondo cui la presenza di tanti clienti cinesi in un ristorante cinese sia sinonimo di qualità. No, c’entra solo il fatto che quel locale prepara piatti della tradizione, indipendentemente da come siano fatti.
Tra i ravioli al vapore Jada morde un su jiao, raviolo di verdure, e mi mostra il ripieno da cui sbocciano dei piccoli spaghettini di soia. Una matrioska di pasta. Abbiamo salsa di soia scura e un’altra boccetta con in più l’aceto, che in Cina è il condimento prediletto. Ed è bene dire che la salsa di soia non è solo nera ma anche più chiara con una diversa gradazione di sale e che dà risultati gastronomici diversi.
I ravioli alla piastra del futuro The North Gate sono davvero buoni. La crosticina sotto è uniforme e solida e croccante, una sottile lamina di grasso imbrunito, sono rosolati e non fritti, come molte persone pensano. Quelli con maiale e sedano hanno dei bei pezzettoni d’ortaggio e se non sei fan meglio passare oltre, sia Jada che io apprezziamo la spiccata nota vegetale che accompagna il maiale. Oleoso il giusto all’interno per gocciolare sul piatto, quello con solo maiale e zenzero rispetta il copione felpando la bocca con una nota grassa striata da una piacevole freschezza citrica. Nonostante almeno una dozzina e più di ravioli ingollati continuo a farmeli scivolare dalle bacchette, una cosa che, non nego, mi avvilisce.
Lu Pechino
Mi congedo da Jada ringraziandola per il tempo dedicato e le preziose informazioni trasmesse ma ho ancora una missione da ultimare, assaggiare i ravioli di Lu Pechino rinunciando alla presenza della mia guida, impegnata per lavoro. Mi sa che qualcuno ha chiesto un altro encore, ma quel qualcuno sono io.
Pochi giorni dopo mi siedo da Ravioli Lu Pechino che avevo trovato chiuso giorni prima. Ho grandi aspettative frutto di eccellenti referenze dalla collega di Munchies, Roberta Abate, che mi accompagna per il pranzo che chiude il tour. La sala ha una sola pecca, una luce bassa che illanguidisce l’atmosfera che sarebbe premiata da luci più frizzanti. Non voglio indossare gli occhiali da sole al ristorante ma capiteci a noi gastro-reporter che immortaliamo compulsivamente ogni portata.
Il locale è gestito da una famiglia proveniente da Pechino che lo ha aperto 4 anni fa dopo aver chiuso il precedente ristorante a Torino. Si fa incetta di ravioli, tutti alla piastra. La titolare è colei che farcisce tutto a mano, la si può vedere lavorare appena si varca la soglia del locale; parlo con la figlia, Lu Xiaoning, che mi dice che i ravioli ripieni di maiale e finocchietto sono tipici della zona pechinese. Li trovo eccellenti nonostante la nota aromatica del finocchietto rischi di soverchiare tutto. Anche quelli ripieni di vitello e coriandolo mi sorprendono per il dosaggio ben proporzionato.
Ma stiamo per salire di livello. Maiale e melanzane, che sono innegabilmente saltate prima di finire incelofanate nella pasta, un boccone ricco e quasi spudorato. Così come è erotico il flirt mari & monti tra maiale e gamberi con in più le uova che rimarcano la nota dolce del crostaceo, che sembra aver ricevuto appena un accenno di calore tanto è sodo.
E come tutti i ravioli, nonostante l’onnipresenza dell’aglio, nessuno mi renderà difficile la digestione e posso garantirvi che quando si tratta di ravioli non mi tiro mai indietro. Fino all’ultima bacchettata. Sempre che riesca a afferrarli.
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