Ieri sera la piattaforma Rosseau ha sentenziato: il 59 percento dei votanti ha scelto di salvare Matteo Salvini dal processo per il sequestro dei migranti della nave Diciotti. È stata la prima volta in cui lo strumento della democrazia diretta è stato sfruttato con il M5S al governo, e il suo utilizzo ne ha probabilmente decretato la morte.
Non soltanto per le farraginose e ridicole dinamiche attraverso cui si è svolto—un quesito a dir poco complesso, un’affluenza ridicola, una serie di ritardi e difficoltà di accesso che hanno creato problemi a molti votanti, e le polemiche riguardo ai finanziamenti ricevuti dai parlamentari che non si capisce come siano stati investiti per migliorare la piattaforma—quanto perché, politicamente, il salvataggio di Salvini è stato una specie di rito del seppuku. Tutto l’iter che ha portato alla votazione è stato deleterio per il Cinque Stelle: prima si sono lasciati andare a dichiarazioni altisonanti sulla volontà di lasciare che si celebrasse il processo e poi hanno fatto dietrofront non appena Salvini ha lasciato intendere che questo minava l’integrità del governo. Arrampicandosi sugli specchi, e cercando un modo per togliersi dall’imbarazzo.
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Dopo aver subito l’ascesa dell’alleato per tutti i primi mesi di governo, aver perso credibilità su svariati punti programmatici agli occhi degli elettori, e aver assistito mentre il cofirmatario del contratto di governo lo rivedeva a proprio piacimento (come sulla Tav), i Cinque Stelle hanno deciso di derogare anche all’ultimo appiglio identificativo che possedevano: la retorica anti-casta sull’onestà.
Proliferato sulle piaghe di un sistema in cui l’immunità parlamentare sembrava il grande nodo gordiano della svolta politica, i Cinque Stelle negli ultimi dieci anni hanno sempre predicato massimo rispetto per le dinamiche della magistratura. Sbandierando la loro profonda convinzione che il luogo a procedere andasse ammesso di default, e che l’immunità parlamentare fosse il sintomo di un sistema corrotto—di fatto, così facendo non avevano mai nemmeno protetto i propri sindaci dalla giustizia. Era realmente uno degli ultimi valori su cui il Movimento poteva ricamare credibilità, visto che negli ultimi anni ha sperperato quasi tutti i pezzi su cui aveva costruito il suo cammino politico fino alle elezioni dello scorso marzo.
In un posto che ha molto circolato in queste ore, Federico Pizzarotti, uno dei “fuoriusciti” più celebri dal Movimento, elenca quasi tutte le prese di posizione dei grillini andate perse in questi anni: alleanze con la partitocrazia, cariche decise soltanto su base elettiva, ingerenze politiche sulla RAI, sperpero di denaro pubblico per i famigerati F35, trasparenza totale via streaming, fine dell’epoca dei condoni, niente più fondi alle scuole private.
Una volta messi di fronte alle dinamiche della politica attiva, i Cinque Stelle sono sempre fuggiti in ritirata, o si sono arroccati su posizioni che definire ambigue e ipocrite è più che un eufemismo.
Una delle frasi più celebri di Roberto Casaleggio, il Sant’Agostino dei grillini, era “ogni volta che deroghi a una regola praticamente la cancelli.” Dopo otto mesi di governo, sembra che derogare sia l’unica azione politica con cui i Cinque Stelle sembrano avere dimestichezza per assicurare il prosieguo della legislatura. Il Movimento teme così tanto il proprio “alleato” di governo, il suo elettorato, e l’influsso crescente che esercita, da averlo assecondato praticamente su tutto.
Nel frattempo, le spaccature interne aumentavano, con un partito diviso fra la fazione ortodossa—quella di Grillo e Fico—e quella “progressista” di Casaleggio jr e Di Maio, in cui le voci degli esponenti politici storicamente più rappresentativi sul campo—vedi i sindaci Raggi, Appendino e Nogarin—risultano ormai echi nel nulla.
Il tweet sardonico con cui Grillo aveva commentato la votazione è piuttosto significativo—nonostante le rettifiche—del clima che c’è all’interno e tutto attorno al M5S. Persino Marione, il Vauro grillino, ha mostrato segni inequivocabili di insofferenza. Persino Marco Travaglio questa mattina ha scritto un editoriale estremamente aggressivo e accusatorio nei confronti del M5S, sottolineando come questo impasse politico decreti “l’infezione berlusconiana” del Movimento.
La fase putrescente in cui sembra avvicinarsi una disfatta politica non è soltanto in avvio: ci sono città, come Taranto, dove la morte del M5S è già stata decretata da proteste e abbandoni dei consiglieri comunali. La batosta elettorale in Abruzzo ha acceso la spia su un piano inclinato su cui i grillini sembrano rotolare con moto accelerato uniforme, mese dopo mese.
Dopo quest’ultima deroga sul processo a Salvini, che annulla gran parte dell’identità grillina, ormai il Movimento appare definitivamente nudo: e il futuro prossimo promette soltanto altre controversie che non sembrano difendibili. C’è la questione della Tav—su cui ci giocherà gran parte della vita di questa legislatura—il problema dell’autonomia nelle regioni del nord su cui sembra inevitabile l’ennesimo scontro con la Lega, e la famosa “riorganizzazione di partito” promessa da Di Maio dopo le elezioni in Abruzzo.
Che appare ormai come un confronto diretto fra le varie fazioni grilline, destinato a ingigantire le incomprensioni. E sono gli stessi esponenti grillini, come Paola Nugnes, a evidenziarlo. Ogni indizio politico, insomma, fa pensare che sia iniziata la fine del Movimento così come lo conosciamo.
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