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Chi sono i terroristi

Lo scorso sabato 10 maggio, circa 20mila persone hanno marciato in corteo per le vie del centro di Torino in quella che nell’attenzione collettiva è stata archiviata come “manifestazione No TAV”. Il che non è scorretto, ma nemmeno completo.

Foto di Francesco Coia.

Uno degli attrezzi giornalistici più abusati, in caso di penuria di idee, quando l’articolo che si deve scrivere è legato a una singola parola chiave e sul suo significato, è quello di prenderne la definizione dai vocabolari più autorevoli e aprire così il proprio ragionamento, magari cercando di contrapporre il significato letterale a una perversione che si è notata nell’aria. Questo è effettivamente un articolo che gira intorno a una sola parola, sulle conseguenze dell’attribuire a quella parola significati e valenze sociali differenti; non interessa però fornire nessuna definizione da manuale, semmai instillare un dubbio sulla legittimità dei significati già dati.

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Lo scorso sabato 10 maggio, circa 20mila persone hanno marciato in corteo per le vie del centro di Torino in quella che nell’attenzione collettiva è stata archiviata come “manifestazione No TAV”—il che non è scorretto, ma nemmeno completo. L’elemento omesso da titoli e riassunti è tutto nella parola di cui poche righe fa anticipavo l’importanza.

Il corteo di sabato non è stato solo l’ennesimo atto di una lotta che dura oramai da più di quindici anni, ma anche un atto di protesta contro la maniera in cui le istituzioni hanno deciso di definire gli episodi più radicali della lotta stessa. Chi ha partecipato alla manifestazione lo ha consapevolmente fatto anche come sostegno a Chiara, Mattia, Niccolò e Claudio, quattro attivisti del movimento accusati di terrorismo per avere, durante la notte del 14 maggio 2013, dato fuoco a un compressore nel cantiere di Chiomonte.

Terrorismo, quindi: è ovviamente quella la parola. Chi l’ha usata per primo non si è fatto il minimo problema semantico, convintissimo l’ha accompagnata a paragoni pesanti con i metodi della mafia. Non sono parole al vento, non quando a pronunciarli sono Alfano e Lupi da destra e anche Fassino e Stefano Esposito del PD, e indicano un atteggiamento piuttosto netto. Nelle parole dei PM prima, e del tribunale del riesame poi, i sabotaggi del cantiere provocano “danni all’immagine del paese a livello internazionale.” I media hanno per lo più seguito a ruota, alcuni sull’onda del sensazionalismo più facile, il che ci porterebbe a considerare come apparentemente meno importanti le loro prese di posizione, ma sarebbe comunque un grave errore. Non mancano comunque quelli che hanno deciso di alimentare il clima di ostilità in maniera più "lucida" facendo, di fatto, da apparato culturale della politica e dei PM.

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Sono quegli stessi media che hanno cercato di promuovere una differenza di intenti tra l’autorganizzazione sul territorio e gli atti di sabotaggio, vedendo “dietro l’angolo” il passaggio a una violenza contro le persone. Questo evitando a priori il dubbio che non sia invece questa maniera di fomentare la paura, liquidando la protesta in due parole, ad alzare il livello dello scontro.

Dal canto loro, gli attivisti non hanno mai voluto mettere nessuna distanza tra chi si è avventurato in gesti del genere e chi non lo ha fatto: nel movimento No TAV non ci sono due filoni indipendenti di protesta e nemmeno due linee incompatibili di condotta. C’è un momento per il sabotaggio e uno per la protesta pacifica, ma la distinzione nasce solo in base all’opportunità pratica, pragmaticamente, allo scopo di evitare forme di azionismo gratuito e violenza random.

È il motivo per cui la vicinanza ai quattro ragazzi, durante il corteo di sabato, è stata espressa in maniera assolutamente pacifica, dalla partenza in piazzale Adriano fino alla conclusione in piazza Castello, dimostrando se non altro una certa determinazione a non far nascere episodi facilmente strumentalizzabili. Certo, sul piano della comunicazione non si è fatto nessuno sconto: simboli e discorsi sono tutti per un rifiuto radicale. La città era comunque altamente militarizzata, come non lo era stata per nessuna delle manifestazioni precedenti riconducibili allo stesso fronte, né di altri movimenti come i forconi.

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I partecipanti vengono da un po’ tutta Italia. Ovviamente il contingente più numeroso è quello dei valligiani e degli attivisti piemontesi, ma tantissimi sono venuti da Roma, parecchi da Milano, e gruppi più piccoli da altre parti del paese. Le istanze della protesta No TAV si sono mescolate spesso e volentieri con problematiche che presentano una matrice comune di antagonismo legato al territorio, contro operazioni economico-edilizie che sono intervenute o stanno per intervenire a modificarlo, secondo gli attivisti, a discapito della collettività per il profitto di pochi. No Muos in Sicilia, No Expo a Milano, i vari movimenti di lotta per il diritto alla casa, e altre situazioni simili. I manifestanti non mancano di ricordare che sono tante le zone d’Italia in cui si sta svolgendo uno scontro di questo tipo e, soprattutto, che in tutti i casi le istituzioni si sono dimostrate praticamente impermeabili.

L’accusa di terrorismo è parte integrante di questo atteggiamento: che si sia d’accordo o meno con le posizioni di protesta, non si può fare a meno di notare che lo stato abbia da sempre cercato di relazionarsi con queste facendone una mera questione di ordine pubblico, spesso senza neanche usare linguaggi troppo allusivi. Anzi, in episodi come quello del compressore, come appena ricordato, le parole sono state da sempre nette e chiare. Nel caso specifico delle proteste No TAV, è abbastanza singolare notare come il dibattito effettivo sia stato minimo, con lo stato e le aziende che non hanno mai tenuto in considerazione il fatto che una fetta di popolazione si stesse sollevando sulla base di un disagio e di una preoccupazione tangibili, e non hanno mai sentito davvero l’esigenza di fornire a queste persone delle risposte, nemmeno volendo dare delle rassicurazioni concrete che li portassero dalla “loro” parte. È paradossale notare come, nei pochi casi in cui un dibattito effettivo su benefici e dannosità della grande opera c’è effettivamente stato, a dati e numeri si è risposto sempre con un tono più ideologizzato, come fosse necessario un atto di fede nel progresso.

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Da qui l’accusa di terrorismo, da qui il regime di semi-isolamento in cui i ragazzi sono tenuti durante la loro carcerazione preventiva, da qui la decisione di tenere il processo nell’aula bunker del carcere delle vallette. Questo è lo stesso trattamento che la giustizia ha riservato a chi ha fatto parte di gruppi che hanno rapito e ucciso, che hanno messo bombe e si sono effettivamente organizzati per sovvertire lo stato attraverso l’uso della violenza. Qui non si chiede a nessuno di esprimere pareri ideologici o personali sull’una o sull’altra questione, ma solo di domandarsi cosa possano avere in comune situazioni del genere. Non c’è dubbio che quello dell’incendio delle attrezzature sia un gesto radicale, un sabotaggio che porta danni materiali alle aziende impegnate sul cantiere, ma le modalità e le motivazioni di questo gesto lo rendono tutto tranne un’intimidazione di stampo mafioso o terroristico.

Sono tutti episodi slegati, ma come si fa a non notare che mentre quattro ragazzi sono in regime di carcere duro per avere distrutto un oggetto inanimato, altrove in Italia degli agenti di polizia condannati per avere massacrato un diciannovenne vengono applauditi dai colleghi senza perdere né divisa né faccia e, ancora altrove, gran parte della dirigenza di un’altra grande opera è accusata di appalti truccati e infiltrazioni criminali? È ancora più emblematico che in questo ultimo caso, neanche fatti così gravi abbiano portato il governo a mettere in dubbio l’opportunità delle grandi opere.

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L’atteggiamento di Renzi è stato quello di ogni politico italiano prima di lui: Expo, TAV etc. sono date per scontate, come se la loro positività fosse emersa da moltissimo tempo in un dibattito che invece non c’è mai stato  A ogni livello si cerca di affermare una cultura per cui le istituzioni chiedono da una parte fiducia totale nelle loro azioni, e dall’altra spingono continuamente per affermare leggi sempre più repressive delle possibilità di dissenso, magari occultandole come successo nel caso degli articoli aggiunti al decreto legge sul femminicidio. In tutto i militanti No TAV su cui pendono procedimenti penali sono più di mille—un numero considerevole che, se non altro, dà l’idea di quanto sia ampia la protesta e quanto sia grosso il numero di chi la porta avanti in maniera attiva.

Il regime carcerario a cui sono sottoposti i quattro giovani è particolarmente duro: rinchiusi in carceri di massima sicurezza, le testimonianze parlano di riduzioni delle ore d’aria, di corrispondenza intercettata, di celle con le finestre ricoperte da pannelli di plexiglass. Ci si scorda poi spesso che questa situazione è del tutto simile a quella che alla fine degli anni Novanta portò alla carcerazione dei militanti anarchici Maria Soledad Rosa ed Edoardo Massari—attivi in Val Susa—dopo un processo che molti ancora giudicano come indiziario e supportato più dall’enfasi dei media che da fatti. Quella vicenda si concluse con il suicidio in carcere dei due.

Non è necessario avere le idee completamente chiare e avere preso parte allo scontro di posizioni sulla TAV per formarsi un’opinione sullo stato dei diritti in Italia. Che si sia disposti o meno ad accettarlo è tutta altra cosa. Occorre chiedersi quanto serva al nostro futuro ridurre il dissenso a una questione di ordine pubblico e non contemplarlo come possibilità di progresso altro, di riappropriazione del presente. Bisogna iniziare a rendersi conto che l’accettazione di un certo modello di autorità e di partecipazione alla cosa pubblica può avere delle ripercussioni sulle nostre vite quotidiane. Sopra ogni cosa, non si può dire che tutto il mondo che fa capo a queste proteste non stia cercando un modello alternativo a quello seguito dalla società italiana oggi, oltrepassando anche le vecchie retoriche astratte di movimento.

Due delle mamme dei quattro sono apparse sul palco in piazza Castello a fianco di volti già noti della protesta come Alberto Perino e Nicoletta Dosio. Perino stesso era stato condannato, insieme alla sindaco e al vicesindaco di San Didero, a risarcire le officine LTF di centinaia di migliaia di euro, cifra per cui fu fatta una sorta di colletta di massa. Ad ogni modo, bypassando i sentimentalismi, le parole di chi è intervenuto vogliono dimostrare che questo movimento non contiene desideri criminali di disordine, ma solo la necessità di rispondere a quella che sentono come un’urgenza esistenziale pratica e condivisa. Si può non credergli, si può pensare che questa urgenza si sia espressa in maniera troppo violenta, solo non si deve ignorare che c’è una grossa parte d’Italia per cui sono i tentativi di “riduzione” nel campo criminale a rivelarsi, alla fine dei conti, il vero crimine.

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