Música

Colonne sonore bellissime: Ghost In The Shell

ghost in the shell

Quando si danza, una bella donna si inebria
Quando si danza, riecheggia una luna brillante
Scende sulla terra un dio per un matrimonio
E l’alba si avvicina tra i canti degli uccelli notturni
Dio ti benedica

Sono pochi versi e somigliano più a una preghiera che alle parole di una canzone. Cosa che sono a tutti gli effetti: si tratta di una preghiera shintoista, To Ho Kami Emi Tame, utilizzata in pratiche di divinazione e purificazione, e come benedizione. Il titolo può essere tradotto in “Il Dio Distante/Antico Rechi Buona Sorte”, ma le cinque parole che lo formano possono essere associate a cinque elementi fondamentali: acqua, fuoco, spirito, umanità e terra.

Nel contesto che ci interessa trattare oggi, queste parole accompagnano il viaggio di un’anima alla ricerca di uno stadio evolutivo ulteriore, che aspira a trascendere oltre la consapevolezza dei propri limiti. È il testo che sentiamo intonare da un coro lungo quasi tutta la durata di Ghost In The Shell, in tre differenti arrangiamenti, diversi l’uno dall’altro soprattutto per le evoluzioni musicali che fanno seguito a ogni comparsa di queste parole.

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La superficie del corpo di Motoko è liscia e dura, de-eroticizzata nonostante le forme perfette; di tutti gli orifizi, solo le entrate jack alla base del collo sembrano servire a metterla in relazione con il mondo circostante.

La prima volta che le possiamo ascoltare è durante i titoli di testa, immediatamente successivi al prologo del film e accompagnati da una apparentemente scollegata sia da quanto la precede che da quello che segue. Si tratta della “nascita” del maggiore Motoko Kusanagi, o meglio della sua resurrezione come cyborg, nuova forma di vita artificiale dalle capacità fisiche potenziate, la cui mente può interfacciarsi alla rete e, tramite essa, comunicare con le altre “anime”. Vediamo il suo corpo completarsi ed emergere dal liquido “amniotico”, vediamo la “placenta” che la ricopre avvizzire e staccarsi.

La superficie del corpo di Motoko è liscia e dura, de-eroticizzata nonostante le forme perfette; di tutti gli orifizi, solo le entrate jack alla base del collo sembrano servire a metterla in relazione con il mondo circostante, a scambiare flussi di informazione con l’ambiente entrate l’altro da sé. La vediamo poi brevemente nel suo habitat borghese, la tipica stanza minuscola e angusta da metropoli giapponese, ma sembra oramai incapace di abitarla davvero, di abitare una vita normale: qualcosa è cambiato, il salto prospettico le ha mostrato i limiti dell’identità e dell’individualità. D’ora in poi nulla sarà come prima.

Uscito nel 1995 e adattato dal regista Mamoru Oshii e dallo sceneggiatore Kazunori Itō (autori, tra l’altro, di Patlabor) a partire dal manga di Shirow Masamune, Ghost In the Shell è stato per anni il simbolo di quello che sia il cinema d’animazione giapponese che la fantascienza di quel decennio potevano essere, ma che molto raramente sono stati: qualcosa di molto maturo e molto complesso, dotato di una grammatica molto efficace nell’aprire interrogativi determinanti sulla realtà.

Le tematiche su cui tenta di riflettere sono le stesse che, pochi anni dopo, i fratelli Wachowski riprenderanno per Matrix, però travisandole parecchio e invertendo la direzione: se lì è la realtà fisica a dover essere riconquistata con la ricerca e l’illuminazione, qui sono la rete e la comunione tra umano e digitale a rappresentare una possibilità gnostica di libertà oltre i limiti dell’individuo.

“Qui sono la rete e la comunione tra umano e digitale a rappresentare una possibilità gnostica di libertà oltre i limiti dell’individuo.”

Nel mondo di Ghost In The Shell, l’ibridazione umano-macchina generalizzata ha fatto sì che anche il “ghost” (spirito/anima, a seconda della traduzione), e quindi la coscienza di ogni individuo possa essere hackerata: un bravo pirata può infiltrarsi nelle connessioni digitali di una mente e manipolarne pensieri e ricordi fino a ricostruirne completamente la personalità. Questo nel contesto di un Giappone in cui le tensioni etniche e la politica estera sono tesi e aspri, condizionati da una politica corrotta, manipolatrice e autoritaria, e in una città (apparentemente Tokyo, anche se non viene mai specificato) che appare decadente e quieta: le poche entità che la attraversano sono solitarie e malinconiche come spettri.

Motoko è un cyborg che appartiene corpo e anima a un’unità antiterrorismo chiamata Sezione 9, il che la porta a vivere nella condizione paradossale di avere un corpo dotato di capacità ben oltre l’umano, ma che di fatto non le appartiene ed è vincolato a continui interventi di manutenzione. Tanto è il livello di confusione tra naturale e artificiale che l’umanità non è oramai altro che uno status sociale: “È solo questo che mi fa sentire umana: il modo in cui mi trattano” afferma il maggiore in un momento di riflessione.

Quando non è in azione, Motoko passa il tempo a nuotare nel fiume Sumida con l’aiuto di galleggianti che sorreggono il suo pesante corpo robotico, immergersi è come disperdersi nell’infinito, e l’acqua che attraversa la città intera è un flusso ciclico di morte e rinascita, di trascendenza e caduta nel tempo. È proprio dopo una di queste immersioni che Motoko si apre al collega Batou—un cyborg come lei—con un monologo in cui confessa tutti i propri dubbi e le proprie aspirazioni brucianti:

Ci sono innumerevoli elementi che formano il corpo e la mente umani. Come innumerevoli sono i componenti che fanno di me un individuo, con una propria personalità. Certo, ho una faccia e una voce che mi distinguono da tutti gli altri, ma i miei pensieri e i miei ricordi appartengono unicamente a me, e ho consapevolezza del mio destino. Ognuna di queste cose non è che una piccola parte del tutto: io raccolgo dati che utilizzo a modo mio, e questo crea un miscuglio che mi da forma come individuo e da cui emerge la mia coscienza. Mi sento prigioniera, libera di espandermi solo entro confini prestabiliti.”

A cambiare tutto è l’incontro col Puppet Master, un misterioso e temutissimo hacker che molto presto le rivela la sua natura di intelligenza artificiale sfuggita al controllo dell’ente governativo che l’aveva sviluppata e dotata per questo di una sua coscienza completamente indipendente. la sta cercando, vuole sentirsi vivo a tutti gli effetti e, esattamente come il Neuromante di William Gibson (vera opera genitrice di GIS), per farlo ha bisogno di fondersi con una coscienza distinta dalla sua per dare vita a una nuova creatura, libera nella rete e indipendente dalle limitazioni a cui gli umano potenziati ciberneticamente sono costretti, oltre che dalle illusorie limitazioni dell’identità. Nella rete saremo sempre soli e smarriti se non lasciamo andare ogni attaccamento.

Ghost In the Shell è un film trasversale, e può permettersi di esserlo grazie alla maniera crudelmente sobria in cui tratta la violenza e le scene d’azione: non c’è niente a commentarle, nessun suono a scandire il ritmo e generando aspettative. Ci troviamo invece davanti a scontri irrealistici narrati con un realismo disarmante, a una tensione che bypassa completamente le sparatorie per riversarsi tutta sui momenti di introspezione e sui passaggi in cui il corpo urbano racconta il suo stesso sgretolamento. È la musica di Kenji Kawai a operare questo spostamento, insistendo ad apparire sparsa e lenta, costruendo un mood malinconico la cui nostalgia è alimentata dal futuro anziché dal passato, dal totale smarrimento dei personaggi principali ansiosi di sorpassare il confine definitivo e, allo stesso tempo, incerti dell’esistenza di qualche mondo ulteriore.

Ghost In the Shell è un film trasversale, e può permettersi di esserlo grazie alla maniera crudelmente sobria in cui tratta la violenza e le scene d’azione: non c’è niente a commentarle, nessun suono a scandire il ritmo

A farla da padrone sono le percussioni tradizionali, e lo spazio in cui ogni colpo riverbera in attesa del successivo: clangori di pelle e metallo, che si infrangono al suolo come gocce da un soffitto sfondato, per poi riprendere la via del cielo sotto forma di vapore acqueo. Il suono dei Taiko, i tamburi che secondo la mitologia shintoista, la kami (dea) dell’alba creo per richiamare la divinità del sole Ameterasu, spaventata dall’ira di suo fratello Susanoto, Kanji delle tempeste, e che fecero danzare e cantare tutti gli dei.

Quelli dei tamburi sono suoni verticali, incrociati orizzontalmente da synth digitali e corde che galleggiano spaesati nel tempo, fantasmi, come il canto che ritorna in tre forme: il rituale di creazione diventa il coro di una intera città perduta, poi celebrazione di una risurrezione. Musicalmente la cosa che più si avvicina a questa OST è City: Works Of Fiction di Jon Hassell che, non a a caso, nella sleeve del disco cita T.S. Eliot, che parla di ritrovare l’innocenza dopo un lunghissimo viaggio spirituale: “...and the end of all our exploring will be to arrive where we started and know the place for the first time.”

Allo stesso tempo, questa maniera di catturare fantasmi dal futuro anziché dal passato ha anticipato tutta la musica che oggi fa uso di un’emotività distopica impossibilmente intensa: gente come Leyland Kirby, Dalhous o One Circle. La stessa malinconia che Vangelis aveva messo nelle musiche di Blade Runner per raccontare i dubbi di Deckard sulla natura e la legittimità della vita, estremizzata però dall’atonalità delle percussioni e dal vuoto in cui vengono quasi sempre messe, soprattutto dalla maniera in cui contrastano col lirismo degli altri strumenti. La loro durezza serve a mantenere inorganico il corpo di tutta la storia, per quanto possieda un battito vitale.

La ciclicità solenne con cui vanno e vengono le mette sempre in primo piano, anche nei brani in cui synth e archi riempiono quasi tutto, l’apparizione rara di un elemento ritmico, anche minuscolo, succhia immediatamente tutto dentro di sé. Il loro eterno ritorno è amore estatico disperato, è il superamento della vergogna di esistere e del dubbio di non esistere: Motoko si autoassolve dal problema della realtà affermando tutto come macchina bioelettronica, il cui suono attraversa tutti gli stati della purificazione passando e ripassando per dubbi e tentazioni.

Potrebbe essere un unico brano e anche non esserne nessuno: la colonna sonora di questo film possiede la rara capacità di confondersi perfettamente con le scene, senza neanche farsi sentire come qualcosa di extra-diegetico ma come ci si aspetta esattamente che suoni la vita in quelle condizioni, in quei giorni in cui tutta l’umanità si trova di fronte a un bivio evolutivo tra il continuare con le atrocità subliminali o trasfigurare in qualcosa d’altro: come una messa atemporale, i cui suoni potrebbero davvero venire da qualsiasi momento nella storia. Ci riesce evitando di organizzare le ritmiche in delle maniere già codificate e catalogabili e, appunto, arrangiando le melodie con suoni talmente lirici che non sembrano potere appartenere all’emotività di un singolo.

Nel momento in cui, assieme a Motoko, ci chiediamo cos’è un individuo, ci chiediamo anche come possa suonare la celebrazione della sua trasformazione, specialmente se questa avviene trattando la tecnologia come nuova natura. La risposta è nel coro, nella danza e nei tamburi. La risposta è in una musica in cui forme identiche cambiano continuamente posizione, cadendo e risalendo come un dio che si sposta ciclicamente dal creato ai cieli.

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