Kunar, Afghanistan. Marzo 2010. Soldati afghani trasportano un compagno ferito su un elicottero americano, dopo un’imboscata dei talebani nel villaggio di Tsunek.
Il fotografo peruviano Moises Saman ha passato gli ultimi anni al Cairo, impegnato a documentare gli effetti della Primavera Araba sugli abitanti della città. Anche se lui potrebbe obiettare che “documentare” non sia il verbo adatto. Il suo lavoro evita volontariamente di mostrare le rivolte da una prospettiva storica e cronologicamente ordinata per concentrarsi su una rappresentazione onesta delle emozioni. Abbiamo parlato di come faccia a continuare a credere nell’umanità dopo aver lavorato per anni in teatri di guerra, e di quanto sia inutile il termine “obiettività” in relazione alle sue opere.
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VICE: Ho sentito dire che hai iniziato ad appassionarti alla fotografia dopo aver visto alcune immagini del conflitto nei Balcani, è così?
Moises Saman: Sì, quella è stata la prima volta che mi sono interessato di fotogiornalismo. Sono stato ispirato da quei lavori nella seconda metà degli anni Novanta.
Mi sembra qualcosa di strano anche per gli standard dei reportage di guerra—quello nei Balcani mi è sempre sembrato un conflitto particolarmente triste e brutale. Cos’è che ti ha appassionato?
Non so se ci sia stato qualcosa di particolare in quelle foto, anche se in quel frangente ne furono scattate di bellissime. Penso che la ragione abbia più a che fare con il periodo che stavo vivendo all’epoca. Era un periodo in cui ogni cosa mi risuonava in testa—il periodo in cui ho iniziato ad interessarmi a quello che succedeva nel mondo. È stato quando ho seguito quella guerra giorno dopo giorno che mi sono “connesso”, se capisci cosa intendo. Ho iniziato ad interessarmi al mondo al di là della bolla in cui vivevo.
Cairo, Egitto, 2 maggio 2012. Manifestanti anti-militari picchiano un uomo catturato perché sospettato di essere un mercenario pagato dall’esercito per creare scompiglio durante gli scontri vicino a Piazza Abbaseya.
Sei andato nei Balcani nelle fasi finali della guerra—come giudichi quel viaggio alla luce della tua nuova consapevolezza del mondo?
Sono stato lì nell’estate del 1999. Ero totalmente impreparato e il viaggio era stato pensato male. Un mio buon amico che avrebbe dovuto venire con me si è tirato indietro all’ultimo momento, così ci sono andato da solo, ho raggiunto il limite di spesa sulla mia carta di credito e non sono riuscito a vendere una sola foto di quel viaggio. Ho provato ad informarmi sulla situazione prima di partire, ma una volta arrivato lì mi sono reso conto che non avevo la minima idea di ciò che stavo facendo.
Però avevo bisogno di farlo. Penso che ne siano venute cose positive e che le esperienze che ho fatto lì mi abbiano reso più maturo. Ci sono andato, ho fatto errori e grazie a Dio sono tornato a casa tutto intero. Se non altro sono tornato più sicuro di me e più deciso a continuare ad occuparmi di fotogiornalismo.
Gran parte dei tuoi lavori li hai realizzati in zone di guerra. Che ne pensi dell’essere definito un “fotografo di guerra”—è un’etichetta che ti infastidisce?
Non so se mi infastidisce, ma di sicuro non mi piace. Penso sia piena di implicazioni che non rappresentano davvero quello che sono come fotografo. È vero, tendo a lavorare in teatri di guerra, ma in qualche modo spero che i miei lavori non vengano visti soltanto come qualcosa di collegato alla guerra—gente che uccide altra gente e così via. Lavoro in contesti di violenza e repressione e cerco di trovare alcuni instanti che li trascendano.
Ovviamente a volte non ci riesco, ma è quello a cui aspiro: cerco dei momenti in cui tutti si possano riconoscere. Non si tratta solamente di mostrare eventi e immagini a cui prima o poi diventiamo tutti insensibili: foto di gente morta o di episodi di violenza. Quindi, “fotografo di guerra” è una definizione da cui mi tengo lontano.
Cairo, Egitto, 28 gennaio 2013. Un manifestante si copre la testa con una busta di plastica per creare una maschera antigas improvvisata durante gli scontri di Piazza Tahrir.
In passato hai detto che ti interessa “cercare le caratteristiche positive comuni allo spirito umano ed esporre quei momenti di intimità tra le persone che ci ricordano della dignità e della speranza all’interno del conflitto”. È qualcosa in cui credi ancora e che ricerchi ancora dopo tutti gli anni che hai passato a vedere guerra, odio e morte?
La mia ricerca continua. Se non fosse così, potrei anche smettere di fare quello che faccio. Nel senso, quando perdi la speranza che senso ha andare avanti? Ma non voglio mentire, dopo tutti questi anni di lavoro in così tanti posti inizio a percepire la densità di quelle scene orribili. Non finiscono mai, continuano ad accadere ancora e ancora.
Ma sono ancora motivato, penso sia importante andare avanti. Vogliamo tutti salvare il mondo e cambiare delle vite, ma capisci abbastanza presto che non si può sempre farlo. Si tratta di contribuire a un dialogo: questo, credo, è ancora importante.
In questo senso, c’è un progetto particolare che è andato più vicino a farti perdere la speranza e la motivazione?
Direi l’Afghanistan. È il posto dove ho passato più tempo nella mia carriera. Ci sono arrivato abbastanza presto, quando l’Alleanza del Nord ha preso Kabul, e ci sono stato l’ultima volta nel 2010. All’inizio c’era grande speranza: stavo mostrando un nuovo mondo al pubblico occidentale; a quei tempi l’Afghanistan era poco conosciuto e tutto ciò era eccitante. Ma come sappiamo, le cose non sono andate molto bene da quelle parti.
Con il senno di poi, penso di essere stato pieno di speranze. Ma più che altro ero giovane; ero all’inizio della mia carriera, ero euforico, e mi sembrava di stare sul set del film Il signore degli anelli. È stata un’avventura entusiasmante, mi pagavano e le mie foto venivano viste dalla gente. Non avrebbe potuto andare meglio. Ma, in prospettiva, adesso—e dopo essere tornato lì tante volte—inizio a pensare ad altre cose. Cosa significa il mio lavoro? Cos’ha a che fare con quanto sta accadendo lì? E inizio a preoccuparmi perché forse non c’è speranza.
Baghdad, Iraq, aprile 2003. Uomini cercano un pilota americano il cui velivolo è stato abbattuto nel fiume Tigri nei primi giorni del conflitto.
Come ti rapporti al pericolo? Una delle tue foto che ho sempre trovato strana è quella in cui dei soldati iracheni setacciano le rive del Tigri in cerca di un pilota americano precipitato in quella zona e che pensavano si nascondesse lì. Dev’essere stato strano trovarsi in mezzo a quello che era a tutti gli effetti un linciaggio organizzato.
Be’, per quanto riguarda quella foto in particolare non è stato così grave. L’Iraq in quel periodo era ancora uno stato di polizia e le cose tendono a non sfuggire di mano negli stati di polizia: tutti hanno troppa paura di fare la cosa sbagliata. Ora come ora il vero pericolo è in posti come l’Egitto. Quando ti trovi in mezzo a una folla, non comanda nessuno. Non c’è alcuna gerarchia e quella folla può rivoltarsi contro di te in una manciata di secondi. Quello è il vero pericolo. In quella foto scattata in Iraq, sì, i soldati avrebbero potuto picchiare o uccidere il pilota americano, ma non penso di essermi trovato davvero in pericolo personalmente. I giornalisti sono più a rischio nelle situazioni fuori controllo.
Hai vissuto al Cairo fino all’inizio di quest’anno. Stai tuttora lavorando molto da quelle parti, o sbaglio?
Sì, mi sono solo trasferito in Spagna.
Il nuovo progetto a cui stai lavorando è un libro sull’Egitto. Dev’essere difficile trattare con obiettività la situazione corrente per uno che vive e lavora lì da lungo tempo. L’obiettività è qualcosa di cui ti preoccupi?
È una zona grigia ed è qui che le cose si fanno complicate. Penso che la questione dell’obiettività per me sia abbastanza irrilevante. Non penso che l’obiettività sia un metro valido per valutare il lavoro di qualcuno, penso sia più importante l’onestà. Sono onesto in ciò che voglio dire e nel lavoro che sto facendo? Questa è la domanda che mi faccio. Ma in questo tipo di situazioni, in cui sei molto legato a ciò che accade, le tue opinioni e le tue esperienze contano. E, ovviamente, se vivi e lavori in un posto per mesi o addirittura per anni, finisci inevitabilmente per esserci legato, se non fosse così saresti un robot. Le emozioni e i sentimenti sono reali. Ricercherei l’obiettività se stessi scrivendo per un giornale, se mi occupassi di giornalismo, ma per quanto riguarda i miei progetti a lungo termine—tipo quello sull’Egitto—ciò che ricerco è l’onestà.
Cairo, Egitto, 29 ottobre 2011. Poliziotti egiziani dentro una camionetta della polizia che percorre un cavalcavia.
Dimmi di più del libro a cui stai lavorando.
Parla della rivoluzione in Egitto, e più in generale della Primavera Araba, dei problemi che ha sollevato. La ricerca di identità di alcune zone del Medio Oriente è ciò che sto cercando di indagare. Ma sto cercando di indagarlo in un modo più, direi, “lirico”… non è un libro giornalistico. Non è una ricapitolazione degli eventi; è una narrazione in chiave personale.
In passato hai lavorato con Human Rights Watch. Sei d’accordo con l’idea che un fotografo sia obbligato a tentare di migliorare le situazioni in cui si trova a lavorare?
Be’, è questo l’obiettivo, no? Ma penso anche che non possiamo prenderci in giro o diventare troppo idealisti. Se lo fai rischi di diventare la caricatura di te stesso. Io cerco di contribuire al dialogo su certi problemi. Ovviamente, se una foto che scatto o un pezzo che scrivo hanno un qualche impatto palpabile sulla vita di una persona, o la cambiano, be’, è fantastico. Vorrei che tutto il mio lavoro avesse questi effetti. Ma la verità è che non succede spesso. Però si può comunque contribuire, cercare di alimentare la consapevolezza e continuare a combattere i problemi. Penso sia una buona causa.
Clicca qui sotto per vedere altre fotografie di Moises Saman.
Cairo, Egitto, 22 novembre 2011. Un manifestante ferito alla testa viene allontanato dalle prime linee degli scontri vicino Piazza Tahrir.
Cairo, Egitto, 2 maggio 2012. Gli scontri nel quartiere di Abbaseya, tra i manifestanti che chiedono l’eliminazione dello stato d’emergenza e i sostenitori dei militari.
Cairo, Egitto, 16 agosto 2013. Medici cercano di rianimare un manifestante pro-Fratellanza colpito a morte da una pallottola durante gli scontri con le forze di polizia egiziani nel quartiere Ramses.
Ismailia, Egitto, 20 aprile 2011. Una fotografia di Mohamad Mashour mentre era in prigione, su un vassoio tra piatti e dessert nell’appartamento di Mashour.
Cairo, Egitto, 28 ottobre 2011. Funerale di Essam Ali Atta, 23 anni, un piccolo malvivente ucciso dalle guardie carcerarie mentre scontava due anni nella prigione di alta sicurezza di Tora.
Cairo, Egitto, 25 gennaio 2013. Scontri tra giovani e polizia vicino Piazza Tahrir nel secondo anniversario della rivoluzione del 25 gennaio.
Cairo, Egitto, 16 gennaio 2011. Sharifa Ibrahim, un’infermiera del Sharif Islamic Committee, un centro comunitario gestito dalla Fratellanza Musulmana nel quartiere di Shobra.
Cairo, Egitto, ottobre 2011. Una sopraelevata autostradale nel quartiere Zmalek.
Cairo, Egitto, novembre 2011. Gente cammina in una strada vicino Piazza Tahrir.
Baghdad, Iraq, 1 maggio 2003. Un soldato americano urla in direzione di una folla che si sta raccogliendo attorno al luogo dell’esplosione di una pompa di benzina illegale.
Golbahar, Afghanistan, novembre 2001. I rinforzi dell’Alleanza del Nord arrivano nel villaggio di Golbahar a nord di Kabul preparare l’attacco finale e riconquistare la capitale in mano ai talebani.
Qalat, Regione di Zabul, Afghanistan. Un soldato afghano si inginocchia davanti un traduttore che lavorava per l’esercito americano, ucciso dal ribaltamento della sua jeep durante una pattuglia notturna.
Cairo, Egitto, gennaio 2013. Un manifestate in una nuvola di gas lacrimogeno.
Cairo, Egitto, dicembre 2013. Un mendicante nel centro storico.
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