Durante la quarantena su VICE avevamo avviato un appuntamento periodico, una specie di angolo in cui raccogliere i nostri pensieri, metterli sotto forma di domanda e lasciare che fosse una figura esperta a rispondere. Ora, anche tramite il contributo di altre redazioni di VICE, il discorso è stato ampliato. Da come fare i conti con un amore non corrisposto a come gestire coinquilini insopportabili, proveremo a offrire qualche consiglio. Oggi parliamo di come smettere di pensare a chi sappiamo che sotto sotto non ci merita.
Ciao VICE,
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ecco la mia domanda: mi sono sempre considerata una persona disponibile, aperta, una buona amica sempre pronta a dare una mano. Magari con qualche difficoltà a dire di no, ok, ma senza credere che questo mi definisse più di tanto.
Poi però un tweet (sì, lo so, sembra ridicolo) mi ha fatto pensare: diceva che quando le persone che dicono sempre di sì e accontentano chiunque iniziano a essere un po’ meno people pleaser la gente pensa siano stronze, non più così amiche—quando in realtà il problema stava proprio nel voler assecondare tutte quelle richieste, a costo del proprio benessere emotivo. Dunque, sono una people pleaser? Sono ancora così fissata col voler piacere e dal bisogno di appartenere, una cosa che associo all’adolescenza, da avere paura di deludere gli altri o di alienarmi le loro simpatie diventando meno disponibile?
Ripensando al modo in cui mi comporto, nella mia testa si compone un gigante sì, e non posso che vedere i miei attuali rapporti alla luce di questa cosa. Come quando metto da parte alcuni tratti del mio carattere o i miei pensieri per adeguarmi alla persona che ho davanti, quando piuttosto che litigare le do ragione, quando chiedo scusa per cose che non c’entrano con me. O, la cosa che mi ci fa pensare più di tutte, quando per paura di veder allontanare la persona che frequentavo (o banalmente di ferirla) ho preferito non essere io a chiudere anche se ero perfettamente consapevole che i nostri obiettivi di vita non coincidessero.
Ora che sto ricominciando a uscire con altre persone, ho il timore che questo atteggiamento mi complichi le cose. Finirò per trovarmi incastrata un’altra volta? Dove sta il confine tra gentilezza e people pleasing? Come si smette di aver paura di essere meno simpatici o appetibili? E cosa succede se si continua a farlo? Magari mi sto facendo dei grandi viaggi.
Grazie, R.
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Ciao R.,
il tuo è un “grande viaggio” condiviso: gli esseri umani sono animali sociali che, per propensione, hanno bisogno di feedback, riscontri e conferme.
Diversi piuttosto, come accenni tu, sono i modi in cui ci interfacciamo con gli altri per riceverli. Ed è questo il fulcro del discorso: siamo realmente consapevoli del modo in cui interagiamo con gli altri?
Lo psicologo e psicoterapeuta Gianluca Franciosi è specializzato nel supporto in situazioni di difficoltà emotive e relazionali. Al telefono mi spiega che “una persona people pleaser si sforza sempre di compiacere gli altri, in qualunque situazione, a tutti i costi e in tutti i modi.”
Questo, “a causa di una bassa autostima,” porta la persona ad avere un’estrema difficoltà a dire di no a richieste o a esprimere realmente i propri desideri o opinioni, “a concordare con qualcuno anche quando in realtà ha pareri opposti o idee diverse per timore del conflitto; o spesso a scusarsi, anche per errori che non ha commesso in prima persona.”
Come sottolinea ancora Franciosi, però, “il profilo del people pleaser è molto ben delineato ed è un termine che ha un suo peso e va maneggiato con cura”—quindi è bene fare un distinguo. A tal proposito, a un certo punto della tua lettera, chiedi: “Dove sta il confine tra gentilezza e people pleasing?”
Per Franciosi, i primi elementi che bisogna prendere in considerazione sono “il contesto, la frequenza, e soprattutto la consapevolezza.” Per questo è altrettanto utile domandarsi: Mi comporto sempre così? Mi rendo sempre disponibile e dico di sì a chiunque abbia davanti? In tutti i contesti e situazioni?
In generale, specifica Franciosi, è insito in noi “cercare di sintonizzarci con il nostro interlocutore, in base al rapporto che abbiamo con lui e in relazione allo scopo della nostra interazione.”
Ci sono dei casi—per esempio in contesti lavorativi o con persone che conosciamo poco—in cui decidiamo consapevolmente di essere temporaneamente più accondiscendenti, più accomodanti, tanto per gentilezza quanto per ottenere un vantaggio: “avere una conversazione piacevole, trascorrere una bella serata o magari avere una promozione lavorativa,” puntualizza Franciosi. “Questa è una forma di adattamento funzionale.”
“Nella dimensione del people pleasing non c’è questa consapevolezza, è tutto molto più sottile: a prescindere dal grado di confidenza che si ha con l’altra persona, vengono totalmente repressi i propri desideri, necessità, convinzioni personali, perché la componente sociale di accettazione e le aspettative degli altri sovrastano tutto il resto.”
A lungo andare, però, questo modus operandi “finisce per essere controproducente,” in quanto non permette alla persona people pleaser di “manifestare la propria reale personalità”: “innanzitutto perché gli sforzi per cercare di piacere a tutti la renderanno più rigida e meno simpatica di quanto potrebbe essere se spontanea e autentica” e “in secondo luogo, i dubbi su chi sia e cosa pensa davvero inizieranno ad essere covati dalle persone che stanno più a contatto con lei.”
In ogni caso, secondo Franciosi dalla tua lettera non ci sono elementi sufficienti per accostarti al profilo di people pleaser.
Piuttosto, dagli elementi forniti, traspare che sei sempre stata molto disponibile con le persone con cui stai più a contatto o a cui tieni—anche quando magari non potevi o avresti preferito concentrarti su altro. Spesso, oltretutto, evitando il confronto, o decidendo di non essere realmente trasparente o totalmente onesta—perché pensavi che questo fosse il modo migliore di preservare i rapporti.
Ma ora che stai crescendo è sopraggiunta maggiore consapevolezza, e hai compreso che hai bisogno di autodeterminazione e volerti un po’ più bene.
“Il che non significa essere egoisti, ma comprendere che il grado di soddisfazione che provi nell’approccio alle relazioni è migliorabile,” spiega Franciosi. “Alla lunga l’insoddisfazione in questo senso può portare a stress, crolli, manifestazioni somatiche o, nel caso di relazioni sentimentali disfunzionali, il partner potrebbe approfittarne.”
Quindi, come superare la “paura” di essere “stronza” per perorare proprie necessità o pensieri?
Franciosi ammette che è un processo che richiede tempo, ma “un primo passo è cercare di capire se il mio accondiscendere, accettare o aderire a quella che è una opinione o esigenza altrui è fatto perché effettivamente l’altra persona è riuscita a convincermi di una nuova visione, prospettiva o col solo scopo di piacere,” precisa Franciosi. “Questo aspetto di autoanalisi indica una persona che non si trova in una reale situazione di people pleasing, ma si sta domandando se nel lungo termine, col proprio comportamento, ci stia entrando.”
Un secondo passo, poi, è allenarsi all’assertività nell’ambito della comunicazione nella relazione. Dire un netto no è in effetti respingente, ma “l’assertività dà la possibilità di non fare troppi passi indietro rispetto a quelle che sono le proprie convinzioni, facendole valere, anche quando in netta opposizione: ‘Capisco il tuo punto di vista, ma in realtà io pensavo…’”, spiega Franciosi. “Assumere di base una posizione passiva o ‘al ribasso’, per quanto possa ottenere inizialmente feedback positivi, porta a un progressivo allontanamento delle persone perché significa non essere disponibile al confronto e al compromesso.”
Al contrario, quando necessario, “il confronto è utile perché da un lato ci porta a darci la sensazione di essere una persona integra, ben strutturata nelle sue posizioni; dall’altro ci mette nelle condizioni di essere alla lunga realmente più apprezzati dagli altri.” In sostanza, riuscire a comunicare le proprie esigenze in maniera tanto decisa quanto educata pare la scelta più proficua, soprattutto a lungo termine.
Le nuove frequentazioni di cui parli possono essere un ottimo modo per allenarti. “Le persone nuove che conosciamo non sanno nulla di noi, e se quando si è con loro si prefigura una situazione in cui di solito siamo poco incisivi, è proprio lì che potremo sperimentare la comunicazione assertiva.”
È cercare il proprio equilibrio tra “far emergere le tue necessità, non dimenticare quelle altrui e dare il giusto peso a come ci vede l’altro.” Alla fine l’obiettivo, spiega Franciosi “è comprendere che è inutile sforzarsi di piacere a tutti, perché non dipende solo da noi.”
“Non si può piacere a tutti, e questo non significa per forza stargli antipatico. Puoi anche essergli indifferente, e va bene così.” E, nel caso in cui avrai la necessità di dire dei “no, non posso” o “Guarda, io la penso un po’ diversamente…” ai tuoi amici, questo non significa che tu gli voglia meno bene o che cambieranno totalmente opinione su di te a tal punto da ostracizzarti. Se così fosse, il problema è più il loro.
“Tendiamo a dare una visione categoriale e schematica, ma la natura umana è molto più duttile e complessa. Nei tipi di approcci possibili con l’altro, dobbiamo immaginare un continuum con due estremi: nel punto A c’è il people pleasing, la tendenza ad accondiscendere a tutto; nel punto B c’è la tendenza a essere assolutamente aggressivi e tranchant,” spiega Franciosi.
“Ecco, noi tutti oscilliamo in continuazione su questo continuum. A seconda delle varie situazioni, delle fasi della nostra vita o degli argomenti possiamo propendere più a un estremo che a un altro. I due estremi sono disfunzionali, il resto dei comportamenti sono collocabili al suo interno. Ed è proprio nel momento in cui la nostra posizione tocca sempre più spesso un estremo, e ce ne rendiamo conto, che vale la pena valutare di intervenire.”