È impossibile non notare la piccola scomoda verità di Nairobi: in ogni locale e bar del centro, donne bellissime e ben vestite bevono e chiacchierano con uomini decisamente più brutti e vecchi. Può capitare di vederne anche tre o quattro allo stesso tavolo, tutte a fare gli occhioni allo stesso tizio dall’aspetto colpevole. Di queste donne, una su tre è sieropositiva: sono le “ragazze del crepuscolo” di Nairobi, e non sempre hanno vita facile. Nessuno ne vuole parlare, ma tutti sanno cosa succede.
Un recente studio pubblicato da The Lancet ha messo in luce come le lavoratrici del sesso in Kenya presentino uno dei livelli di diffusione dell’HIV più alti del continente africano. La notizia arriva solo qualche settimana dopo una nuova richiesta del Comune della città di Nairobi di legalizzare la prostituzione.
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Alla proposta di legalizzazione è seguita una manifestazione, durante la quale lavoratori e lavoratrici del sesso sono scesi in strada mascherati per chiedere la fine delle violenze sessuali e delle molestie da parte della polizia. In una città in cui 7000 persone lavorano nel mondo del sesso e hanno a che fare con tre o quattro clienti per notte, il dibattito emerso è indubbiamente intenso.
Ho fissato un incontro con alcune prostitute da Abu, un orribile buco sulla dissestata River Road, per sentire la loro opinione.
Al mio arrivo, una sfilza di donne sciupate stava in fila lungo le scale, alcune accasciate per terra.
Mary, diciannovenne, è nel giro ormai da un anno. Vive con la sorella, che non sa della sua vera professione e la crede impiegata a tempo pieno in un centro estetico: tra le donne di Abu è questa la copertura più ricorrente. Comprensibilmente, nessuna si è lasciata fotografare.
La loro giornata è questa: si svegliano a mezzogiorno, si dirigono al locale in cui lavorano e restano lì a bere e cercare clienti fino alle 4 o le 5 di mattina. Se hanno dei bambini (Mary ne vorrebbe, due prima o poi), gli danno da mangiare la mattina, poi dormono un po’ e ricominciano da capo.
“È uno stile di vita assurdo” dice Mary. “A casa mi dico cristiana, e a mia sorella ripeto spesso che presto tornerò a scuola. Ma qui fuori è tutto diverso.”
Quindi, come funziona esattamente? Stando a quanto dice Mary, devi attaccare bottone con un qualche tizio, sederti al suo tavolo e ordinare da bere. Se lui ci sta, devi lavorartelo: flirtare, ridere, ignorare il fatto che ha trent’anni più di te ed è, probabilmente, sposato.
“Non è complicato. Vado con lui, tiro fuori il preservativo, scopiamo. Non lo bacio, è solo una questione di lavoro. Poi me ne vado. Della maggior parte di loro non mi importa nulla; ce ne sono forse tre che vedo più spesso, gli altri me li dimentico.”
La tariffa di Mary è di 200 scellini kenioti a prestazione, circa due euro. In una serata buona trova due o tre clienti. Ma se sono disposti a pagare almeno 500 scellini, è pronta anche a farlo senza preservativo.
“Conosco i rischi e ho paura” mi dice, “ma devo pur mangiare, comprare i vestiti e avere un tetto sopra la testa.”
La maggior parte di queste donne sono mamme single che cercano disperatamente di mantenere i propri figli e di guadagnare abbastanza per il cibo e l’affitto. Chiedono sempre di usare i preservativi, ma spesso i clienti sono disposti a pagare di più pur di farlo senza.
La differenza tra 200 e 500 scellini, però, è enorme; me ne parla Shayla, 22 anni: “Ho una figlia di sei anni che mi aspetta a casa. Che posso fare per lei? Se non ho soldi non mangiamo.”
Shayla prova anche a limitare i rischi: mai essere più sbronza del cliente, né andare con gente sotto l’effetto di droghe; ma questo non sempre è abbastanza. Ricorda ancora il suo primo cliente, qui da Abu, tre anni fa: “Avevo finito le superiori e mi ero trasferita a Nairobi, ma non c’era lavoro. Così passavo il tempo qui, e un giorno un tizio mi ha invitato a sedermi al suo tavolo. ‘Voglio solo parlare.’ Poi però la sua versione è cambiata, voleva fare sesso. Ce ne siamo andati assieme. Si rifiutava di usare il preservativo e quando ho cercato di andarmene mi ha tirato uno schiaffo. Alla fine mi ha dato i soldi per tornare indietro in pullman, e io me ne sono andata.”
Come Mary, e con lei la maggior parte delle prostitute, anche Shayla giura di non essere sieropositiva.
“E anche se lo fossi, non potresti mai dirlo, sarebbe la fine,” dice.
Oltre al pericolo costante di contrarre l’HIV e di subire violenze o stupri, le prostitute di Nairobi sono spesso destinatarie di molestie da parte della polizia.
“Magari stai attraversando la strada da sola, di sera, e loro ti fermano e iniziano a importunarti. Devi pagarli e implorarli o ti trovi a passare la notte in cella. Questa cosa ci fa perdere un sacco di soldi,” mi spiega Shayla.
Catherine Mukundi è la coordinatrice del programma Hope Worldwide Kenya, una ONG che aiuta le prostitute ad affrontare i problemi che il loro lavoro comporta. Si è rifiutata di parlare della questione della legalizzazione, ma il suo commento lascia intendere come la pensi: “Credo che alcuni problemi esistano perché la prostituzione è considerata un crimine.” “A volte le donne vengano molestate dalla polizia perché scoperte con dei preservativi. Proprio perché lavorano in modo clandestino non si sentono neppure sicure nel tenere le precauzioni di cui hanno bisogno.”
I livelli di diffusione dell’HIV potrebbero scendere e le donne sarebbero molto più protette, se non fossero oggetto di ingiustizie da entrambi i lati della legge, spiega. “Non hanno abbastanza potere neppure per contrattare sull’uso del preservativo. Il nostro ruolo è convincerle che non devono piegarsi a queste pressioni.”
Ma con un tasso di disoccupazione stimato al 40 percento, è improbabile che le “ragazze del crepuscolo” abbandoneranno il loro stile di vita. Mary, durante la nostra conversazione da Abu, mi ha confessato di non credere che la legalizzazione possa migliorare le cose.
“Finché riusciremo a guadagnare soldi a sufficienza e dimenticarci di quello che facciamo, continueremo a soddisfare le richieste dei clienti. Che altra scelta abbiamo?”