Salute

Come gestire la stanchezza che tutti proviamo dopo mesi di restrizioni

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Eccoci qui: è di nuovo quel periodo della pandemia di coronavirus.

Le conferenze stampa a Palazzo Chigi che iniziano in ritardo; i DPCM preceduti da indiscrezioni poi smentite (a volte non del tutto); i conflitti tra regioni e governo o tra comuni e province; il linguaggio bellico fatto di “coprifuoco,” “trincee,” e “battaglie”; i meme sui balconi; l’andamento esponenziale della curva e—su tutto—lo spettro di un secondo lockdown generalizzato ad aleggiare sul paese e sulle nostre vite.

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Questa volta però, ci assicurano più o meno tutti da Giuseppe Conte in giù, non è come a marzo. E in effetti, almeno per il momento non è così. Solo che questa volta c’è molta più stanchezza e amarezza rispetto a qualche mese fa. La bruciante impressione è che i nostri sacrifici siano stati vani e che, nonostante fosse ampiamente prevedibile, la “seconda ondata” ci abbia colti impreparati.

Non siamo gli unici, ovviamente. È un fenomeno che sta avvenendo in tutta Europa e ha un nome specifico: la “stanchezza da pandemia” (o pandemic fatigue, da non confondere ovviamente con la spossatezza dovuta alla sindrome post-Covid).

Stando ad un sondaggio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), almeno il 60 percento degli intervistati sta sperimentando una “sensazione di sfinimento” per il trascinarsi dell’allerta sanitaria e le relative restrizioni. Numeri simili li ha riscontrati anche una rilevazione dell’Economist.

Sempre secondo l’Oms, anche se ormai sono passati diversi mesi dall’implementazione delle prime misure, la maggior parte delle popolazioni europee “sostiene ancora le risposte nazionali al Covid-19.” Tuttavia—ha detto il direttore per l’Europa dell’Oms Hans Kluge—c’è il rischio concreto di una perdita di fiducia verso queste ultime, che di converso può portare a non rispettarle o pensare che siano un costo troppo alto da pagare rispetto al rischio di contrarre la malattia.

Navigare in questa situazione, insomma, potrebbe essere ancora più complicato rispetto a quanto già lo fosse a febbraio e marzo. E le implicazioni sono davvero enormi. Per cercare di capire cosa sia la “stanchezza da pandemia” e quali meccanismi metta in moto, ho parlato con Renato Troffa—psicologo e docente che avevamo già intervistato qualche mese fa.

Cos’è la “stanchezza da pandemia”

Le quarantene di massa sono state uno degli eventi più impattanti nella storia recente, e hanno coinvolto chiunque—anche chi non è stato direttamente toccato dal virus. Ma ora che se ne riparla in tutta Europa, dice Troffa, “il ritorno a una condizione dalla quale si sperava di essere usciti” può portare a una condizione di “impotenza appresa.”

Se dopo ogni sforzo ci si ritrova al punto di partenza, continua, “la percezione che abbiamo di poter controllare l’evento crolla, facendo aumentare l’impatto nocivo degli eventi e facendo decrescere la nostra motivazione.” Lo sforzo costante prosciuga inoltre l’energia delle persone, che ora mostrano “più sintomi di paura, ansia, solitudine, frustrazione, burnout e scoramento.”

Tutto ciò ha ovviamente forti conseguenze sul piano sociale. Per Troffa, da un lato si riscontrano nel “calo della motivazione al lavoro o alle proprie attività” e in un “incremento dell’aggressività interpersonale”; dall’altro, nel ritiro dalla propria vita sociale, per “paura” o per “incapacità di gestirla.”

Pandemia e frustrazione, stress e ricadute sulla salute fisica

In un certo senso, dunque, la “stanchezza da pandemia” è una reazione assolutamente normale. “Quando lo stato di allerta persiste troppo a lungo e senza un limite temporale definito, le persone tendono a un adattamento alla paura,” spiega lo psicologo.

Pertanto, è fisiologico che ci sia “un calo dell’attenzione verso le precauzioni da mettere in atto, che a un certo punto emerga la voglia, consapevole o meno, di convivere con il rischio pur di allentare la tensione che colpisce la nostra mente, e il nostro corpo.”

Questo può tradursi sia in un atteggiamento di fatalismo ed alienazione, con aumento dello stress—un “elemento fortemente patogeno che mette anche a rischio la nostra salute fisica”—e della tendenza a basarsi su “informazioni semplificate o false” che in qualche giustificano l’allentamento della soglia di attenzione.

In più, continua Troffa, i livelli di frustrazione a cui siamo esposti portano a “un incremento del tasso dell’aggressività e della rabbia,” che in condizioni normali “tendiamo a nascondere perché non sono socialmente utili o accettabili.”

La grande domanda è: cosa si può fare per non essere sopraffatti da questa “stanchezza”? Accettare che non torneremo mai più alla “normalità,” visto che non se ne intravede la fine? O rinchiudersi di nuovo in casa 24 ore su 24?

Come si può affrontare la “stanchezza da pandemia”

Anche se non c’è una ricetta magica, esistono possibili risposte sia sul piano individuale che su quello pubblico. Dal primo punto di vista, dice Troffa, è essenziale dedicare “un’attenzione maggiore a riconoscere, gestire, comunicare le nostre emozioni,” nonché “esprimerle in maniera funzionale per evitare che, inespresse, aumentino ancora di più le conseguenze negative per la nostra psiche.”

L’altra attività fondamentale è cercare di ridurre il livello di stress per dare tregua al nostro organismo. Come? A questo proposito, lo psicologo cita alcune linee guida dell’Oms come cercare prendersi cura del proprio corpo, mantenere una “connessione sociale adeguata” (senza forzare ma nemmeno finire nell’isolamento totale), oppure limitare l’esposizione alle notizie sulla pandemia, scegliendo solo fonti affidabili.

Ma la “stanchezza da pandemia” ha una dimensione collettiva, e come tale dev’essere presa in carico dalle istituzioni—a maggior ragione quando si devono far rispettare misure di sanità pubblica.

L’Oms ha individuato diverse strategie chiave, tra cui: coinvolgere la popolazione nella strategia contenitiva e considerarla come parte della soluzione, e non come nemici da rimproverare o a cui dare la caccia (com’era successo durante la prima ondata); aiutare le persone a ridurre i rischi e sostenere i loro bisogni; e riconoscere i grandi sacrifici che le cittadine e i cittadini hanno fatto finora.

Infine, conclude Troffa, per provare a superare questa stanchezza che ci avvolge—anche oltre il breve termine—è utile proiettarsi nel futuro. “Sarà normale ascoltare voci e pensieri che ci diranno che un futuro non ci sarà,” spiega, “ma in realtà la nostra vita tornerà, e ce lo dobbiamo ricordare anche in questo modo.”

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